Quattro archi alla Notari il pomeriggio di domenica: il segno di una tradizione che per gli Amici della Musica di Perugia vuol dire atto di fondazione, nel lontanissimo 1946, all’Università per Stranieri, con il Quartetto Italiano.
Mitologia. Oggi è politica, almeno quella parte sana della politica, che vede l’attività delle Dimore del Quartetto oggetto di attenzione da parte della Camera dei Deputati e la Cariplo assegnare un premio per l’alto valore di innovazione culturale.
Abbiamo già parlato delle Dimore del Quartetto a proposito del concerto per la Sagra realizzato a Valvitiano, in casa Buitoni Borletti. Si tratta di un progetto europeo che vede molti enti e personaggi virtuosi rivolgere la loro attenzione ai complessi di quartetto d’archi formati da giovani. Considerate le difficoltà solo per stare insieme e studiare i quartettisti devono superare ostacoli di ogni genere, soprattutto finanziari. Le Dimore si fanno carico di molte cose, dall’ospitalità per studiare, al reperimento di occasioni di concerto. Il che vuol dire ossigeno, possibilità, prospettive per giovani esecutori che decidono di intraprendere una strada tutt’altro che agevole.
Ai ragazzi del Quartetto Adorno è andata bene. Fiesolani per formazione, con un’affermazione al premio Borciani, inizio di carriera suffragato da una formidabile preparazione e da una incredibile accelerazione internazionale, Edoardo Zosi, Liù Pellicciari, Benedetta Bucci e Danilo Squintieri sono planati nella sala dei Notari per farci sentire di che pasta sono fatti i loro sogni. E si sono scontrati subito con la realtà brutale che saliva dalla sottostante piazza, degli esaltati con megafono che blateravano di non si sa quali diritti, funestando gran parte della seconda parte della serata.
Tutto il concerto era siglato da una opzione altamente intellettuale.
Come del resto si conviene a una formazione che ha deciso di intitolarsi a uno dei più dogmatici esponenti della Scuola di Francoforte, Theodor Wiesengrund Adorno, cognome genovese per una grinta di pensatore iconoclasta, furioso esaltatore della dodecafonia, cieco e tetragono a ogni altra funzione musicale che non fosse la serialità. Oggi la realtà e lo svolgere dei tempi hanno restituito alla musica ciò che Adorno le aveva tolto, ma aleggia ancora lo spirito cataro che aveva fatto piazza pulita di tutto ciò che viennese non fosse. Stravinskj in primis e Shostakovich a seguire.
Chi ha potuto ascoltare come gli Adorno hanno eseguito il Quartetto op. 138 di Shostakovich ha potuto apprezzare l’estrema serietà con cui i ragazzi fiesolani, peraltro veramente giovani, hanno preso di petto una delle partitura più tetre emerse dal disfacimento dell’impero sovietico. Un “delitto e castigo” che contiene tutte le atrocità del regime e la profonda ferita che il dolore e la paura hanno impresso sull’anima di un musicista sempre in bilico tra composizione, ispirazione e gulag. Un percorso a tinte scurissime quello del tredicesimo quartetto della sterminata produzione di Shostakovich, una musica senza respiro, senza remissione, senza speranza. Ma di un fascino incredibile, la contemplazione dell’allucinazione, con rigurgiti, battiti, gemiti e sospiri. Tanto viene richiesto agli esecutori, in particolare alla viola, condannata ad altezze estreme. Come non associare questo pezzo, che dura “appena” venti minuti, ai Grandi Neri di Burri, alla vertigine del vuoto, al silenzio del colore, all’afasia della tela muta? Altissima testimonianza esecutiva di un Novecento senza futuro quella offerta dai sorprendentemente maturi Adorno, e vogliamo farne tesoro. D’altra parte della vocazione tutta Novecentesca che è propria di formazioni giovanili è stata prova anche il complesso fuori programma offerto, il primo tempo del Quartetto di Debussy, una pulsazione vitale e suprematista da mozzafiato.
Sui due Beethoven offerti dai giovani ospiti c’è da dire che la scelta è caduta su due paginone che sollevano “letteratura” a ogni accordo. Il quartetto op. 95 e l’op. 59 n. 2 sono coagulati problematici che lo stesso Adorno ha sezionato, elevandoli a paradigma della modernità che anima la loro concezione. Ma nessuno ha scritto di suonarli così veloci, così disarticolati, tanto da risultare invertebrati. A qualcuno la vertigine è piaciuta, ma forse un Beethoven cosi “lite” può affascinare per la sua vitalità e la sua scorrevolezza, peraltro dominata perfettamente dagli Adorno con una tecnica senz’altro sopraffina. Il fatto è che in tutto questo formicolio manca la “collera” che, come sosteneva Cioran, è la grande novità che Beethoven ha introdotto nella musica. Correre come lepri e trasformare frasi peraltro “furiose” e “seriose” in un pulviscolo di sensazioni è una scelta che va senz’altro apprezzata quando esposta in maniera così coerente. Sul condividerla se ne può parlare.
Stefano Ragni