di Adriano Marinensi – Un quasi antico compagno di scuola, incontrato per caso dopo una lunga parentesi di reciproco silenzio, mi ha raccontato un sacco di cose. Ed io a lui. Spesso gli è capitato di leggere quel ch’io vado scrivendo. Tra i tanti, anche di aver apprezzato – ha detto, bontà sua – un vecchio articolo intitolato Il sasso, l’uomo, il mondo, la vita. Sono andato a frugare in archivio ed è saltato fuori: roba di settembre 2007 (ma, tu guarda che memoria, l’amico!). Si tratta di un dialogo virtuale, quasi a livello di racconto fantozziano, tra me e il sasso che avevo preso a calci, nell’andar per colli. Ragionamento fuori d’ogni logica. Oppure qualche significato lo contiene? Giudicate voi.
Il sasso ben levigato, molto simile, per forma, ad un uovo di colombo, aveva appena finito di rotolare giù per la scarpata declinante al margine del viottolo in salita, che si prese un calcio dal mio piede. Rivelatosi poi, per ciò che valuterete più avanti, maldestro e arrogante. Finì lontano il sasso una decina di passi. Camminavo lento e irriflessivamente, lo sguardo rivolto al sentiero sconnesso, il pensiero campato in aria. Raggiunto che l’ebbi, dopo dieci passi, mi ha parlato. Forse con la voce della mia coscienza, in quanto attorno regnava la quiete del bosco.
“Uomo, con quale diritto tu mi prendi a pedate? Io sono immensamente più vecchio di te. Dimoro su questa terra da tempo che sa di infinito. Quindi, almeno al pari degli avi tuoi, merito rispetto. Troppo spesso, uomo, prendi a calci il prossimo, insulti la natura che provvisoriamente ti ospita, dimentichi il tuo sollecito destino. Nell’immenso oceano del divenire, sei soltanto un’increspatura di superficie.” Così si rivolse a me quella piccola, all’apparenza inutile pietra; però – a pensarci su – quel che parvemi d’udire, lo espresse con la saggezza di un grillo parlante.
Fermato, per un momento, l’andare e rimuginata la mente intorno alle “parole di pietra”, convenni che, alla fin fine, stando alla sua età, al sasso un po’ di riguardo gli era dovuto. Io invece, con noncuranza (però senza dolo, né colpa) l’avevo offeso, scalciandolo in modo irriverente. Di fronte a lui, tetragono e fors’anche antidiluviano – “Avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura (Dante) – il tempo della mia vita si può misurare con la durata breve di un sospiro ansimante. Quando nacqui io e persino il trisavolo del mio bisnonno, il sasso c’era già dai secoli dei secoli. E per altrettanti rimarrà quando io sarò via da un pezzo. Così come il creato attorno.
Ordunque, a pensarci bene, lo stare dell’uomo, di ciascun uomo e di ciascuna donna, sopra questo sdrucito (dall’uomo e dalla donna e da chi altro sennò?) pianeta, rappresenta un istante al confronto con l’esistenza incommensurabile di qualsivoglia pietra. E persino della quercia che si ergeva maestosa proprio lì dove avevo fermato i passi. In termini di longevità, l’uomo che ritiene con burbanza, di essere il padrone del mondo, ne dispone a suo piacimento, vaga orgoglioso verso altri pianeti; in fatto di longevità – riflettei – vale meno della quercia, poco più d’una ghianda. E talvolta privilegia l’odio all’amore, l’egoismo alla fratellanza.
Chissà se non sarebbe il caso che si facesse guidare nell’agire, sovente inconsulto, da qualche meditazione in più. Oppure da quella dei frati, i quali, incontrandosi nell’orto del Convento, si rammentano l’un l’altro, “ricordati fratello che devi morire”. Insomma, pur prescindendo da lugubri presagi, tieni a mente, o uomo, la vaghezza della tua esistenza e fanne buon uso. Il divenire rapido delle albe e dei tramonti, delle stagioni e degli anni, intacca appena l’integrità della pietra, mentre consuma, in un lampo, l’età dell’uomo. Sovente dissacratore di se stesso, dissipatore delle risorse naturali, millantatore di sesquipedale genio, prodigo oppure Arpagone, travolto, per egoismo e tornaconto, dalla bramosia dell’avere anziché privilegiare l’essere.
L’uomo fruitore d’ogni diritto e trasgressore d’ogni dovere sociale, incline all’avversione ed alla violenza. Quell’uomo, di fronte ad una selce quasi imperitura, diventa meschino, caduco, come d’autunno sugli alberi le foglie. Il sasso quindi aveva ragione nell’ inveire al mio gesto – egli veterano testimone di millenarie venture – preso a calci dal piede di un transeunte, troppo spesso irriguardoso verso il suo prossimo e le bellezze del creato, cementificatore dell’ambiente di vita, schiavo respiratore di atmosfere malsane. L’uomo, tanti uomini sovvertitori della solidarietà e della fratellanza. Alla continua rincorsa di traguardi effimeri, senza memoria alcuna. L’uomo che spenda un’everest di quattrini per andare su marte a cercare chissaché, mentre tanti bambini rischiano la vita per denutrizione.