Di Adriano Marinensi – La foto tragicamente più famosa è quella che mostra l’orologio della stazione di Bologna, fermo alle 10,25. Segna il tempo dell’infamia. L’ora dello scoppio di una bomba collocata, il 2 agosto 1980, nella sala d’aspetto di 2^ classe, gremita di passeggeri. L’orrendo risultato fu: 85 morti e 200 feriti. Costituisce la maggiore strage provocata, durante il periodo cosiddetto della “strategia della tensione” e degli “anni di piombo”, caratterizzato da un groviglio di connivenze, responsabilità, depistaggi, tra terrorismo, organizzazioni mafiose, delinquenza comune, servizi segreti deviati. Prima c’erano stati, andando per esempi, Piazza Fontana (12 dicembre 1969 – 17 morti), Piazza della Loggia (28 maggio 1974 – 8 morti), Via Fani (16 marzo 1978 – 5 morti più Aldo Moro). Dopo ci saranno Capaci (23 maggio 1992 – Falcone, la moglie e 3 Agenti di scorta), Via D’Amelio (19 luglio 1992 – Borsellino e 5 Agenti), Via Palestro (1993 – 5 morti), Via dei Georgofili (1993 – 5 morti). E tanti altri uccisi, uno ad uno, in una miriade di attentati. Poi, le forze perverse della criminalità politica furono sconfitte dai valori della democrazia.
E San Benedetto Val di Sambro (Sangro), pochi passi da Bologna, la vigilia di Natale del 1984 (17 morti e 130 feriti), con la bomba collocata in uno degli ultimi convogli del “Rapido 904” e fatta esplodere dentro un tunnel. Il Capostazione spiegò che “se il treno si fosse incendiato, nessuno sarebbe uscito vivo da quella galleria”. La Magistratura attribuì l’orrore alla mafia, come ritorsione per la vasta azione giudiziaria messa in atto dallo Stato. Enzo Biagi scrisse un articolo intitolato “Peggio di Marzabotto”. Un paradosso per dire che “le truppe di Reder avevano una divisa; gli autori della carneficina sul treno sono fantasmi che vogliono nascondere la loro bassezza, la loro viltà, anche a se stessi”. L’inviato de la Repubblica, all’arrivo del treno squarciato nella stazione di S. Benedetto V.di S.: “Uno scempio orrendo, fa ammutolire il popolo dei soccorritori. Nove ore dopo lo scoppio, l’orrore sfila sul terzo binario che 10 anni fa conobbe l’altra strage dell’Italicus”. Già, il treno Italicus, ancora una bomba tra i passeggeri (4 agosto 1974 – 12 morti).
Lo stesso scempio orrendo (e l’identica viltà) di chi piazzò l’ordigno alla Stazione di Bologna, contenente 23 chili di esplosivo, che ebbero per conseguenza una sconvolgente azione distruttiva, quanto criminale. Di Maria Fresu, 24 anni, non venne ritrovato neppure il corpo. I funerali solenni si svolsero il 6 agosto, nella Basilica di San Petronio, alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del Capo del Governo Francesco Cossiga. Quindi, le indagini, complicate da depistaggi d’ogni genere, da parte di chi avrebbe invece avuto il dovere di collaborare nella ricerca della verità. Persino mettendo in giro, poche ore dopo i fatti, la tesi della vecchia caldaia esplosa per caso sotto il pavimento della sala d’aspetto. Entrarono in scena, per confondere le idee, addirittura i Servizi segreti deviati, che fecero ritrovare, su altro treno, il materiale esplosivo, per un secondo attentato. La Corte d’Assise di Roma ebbe a scrivere in sentenza che “la ricostruzione dei fatti fa emergere una macchinazione sconvolgente e tale da aver depistato le indagini sulla strage di Bologna.” Alla ricerca dei responsabili di tante azioni criminose, ha operato – dal 1988 al 2001 – la Commissione stragi (20 Deputati e 20 Senatori), nominata dal Parlamento con ampi poteri. I risultati non sono stati pari alle attese.
Agli inquirenti di Bologna apparve abbastanza credibile la pista del terrorismo nero. Sette anni di investigazioni per andare al processo di primo grado, iniziato il 1 marzo 1987. Alla sbarra decine di imputati, tra i quali, i principali indiziati Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Stefano delle Chiaie, appartenenti all’area del neofascismo violento. L’Accusa sostenne i reati di strage, banda armata, associazione sovversiva, calunnia aggravata. Severo il verdetto: 4 ergastoli e pesanti pene detentive. In Appello, molte pene furono confermate, mentre la sorpresa arrivò dalla Cassazione: il processo andava rifatto perché i Giudici precedenti s’erano avventurati in “tesi inverosimili, che neppure la difesa aveva sostenuto”.
Si torna in Assise e la Corte condanna all’ergastolo, per il delitto di strage, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco; a rilevanti pene detentive, per banda armata, Gilberto Cavallini, Massimiliano Fachini, Egidio Giuliani, Roberto Rinani; per calunnia aggravata, i depistatori Giuseppe Belmonte, Pietro Musumeci, oltre a Licio Gelli (il “Venerabile” della P2) e al faccendiere Francesco Pazienza. La sentenza definitiva uscì il 23 novembre 1995: ergastolo per Fioravanti e Mambro, in quanto ritenuti esecutori dell’attentato. Per i tentativi di manovrare fraudolentemente il corso della giustizia, ebbero pene Gelli, Musumeci, Belmonte e Pazienza, quest’ultimo riconosciuto collaboratore del SISMI. Il percorso giudiziario intorno alla vicenda non finì in quella sede. Altri personaggi di cattiva fama furono imputati a vario titolo come Massimo Carminati (lo ritroveremo anni dopo, protagonista di spicco nel guazzabuglio di “Roma capitale), Luigi Ciavardini (sentenza definitiva, a 30 anni per strage) e Gilberto Cavallini, tutti “autorevoli” esponenti del terrorismo nero.
Comunque, dopo una lunga indagine, più di un processo ed anche verdetti contrastanti, alcuni coni d’ombra sono restati su quella mostruosa vicenda di Bologna. Attorno ai condannati e ai tanti morti, hanno ruotato infamità di rilevante dimensione; un viluppo di crimini infami e di colpevolezze dirette e indirette. Di un’Italia da dimenticare. Mentre meritano ricordo perenne le vittime di tanta insensata violenza. Provocata dagli estremisti di destra e di sinistra, con le Brigate rosse autrici di innumerevoli omicidi ed atti di brutalità; ompiuti in nome di una ideologia aberrante, sconfitta dalla tenace resistenza delle forze popolari e democratiche.
Nella sala d’aspetto della Stazione di Bologna, quasi disintegrata dalla bomba, c’era anche un ternano: Sergio Secci. Giovane valente e pieno di sogni ai quali dava concretezza il curriculum universitario, ricco di 30 e lode e la laurea conseguita al DAMS di Bologna. Stava andando a Bolzano per motivi di lavoro. Il destino gli aveva fatto perdere il treno precedente. Morì 5 giorni dopo per le gravi ferite riportate. Il padre Torquato – nel 1985, durante una manifestazione in ricordo del massacro – disse: “L’indignazione e la pietà non sono sufficiente barriera al ripetersi delle stragi. E’ necessario un impegno importante e costante per evitare che capitino in futuro”. Espressione profetica, perché, in Italia, il tempo del disonore non era ancora finito.