Di Adriano Marinensi – Su una rivista di carattere culturale, stampata in Umbria nel 2011, ho trovato una interessante analisi storica di un processo tipico dell’era fascista a carico di una “cellula rossa” clandestina operante, a Terni, verso la fine degli anni ’30.
Un fatto singolare, quello del sovversivismo, fuori dal contesto che presentava una collocazione politica della città di color nero. Per convincimento, ma anche per difendere il posto di lavoro.
Infatti, nel saggio in questione, firmato dall’avv. Marcello Marcellini, viene precisato che, al 31 gennaio 1938, i ternani tesserati al partito di Mussolini erano più di 14.000, con quasi 8.000 giovani. Le organizzazioni collaterali, ivi comprese le massaie rurali, contavano circa 33.000 tesserati e quelli irreggimentati nel Dopolavoro erano 22.500. Insomma, una percentuale di cittadini fascistizzati molto elevata, considerato che Terni aveva metà degli odierni abitanti. Anche se – è l’opinione espressa da un infiltrato dell’OVRA – “la maggioranza della massa operaia non poteva ritenersi sinceramente fascista, pur essendo inquadrata nelle organizzazioni del regime”.
In tale difficile realtà è collocato il racconto di Marcellini. Il protagonista si chiama Claudio Bracci, figlio del famoso chirurgo ternano Braccio Bracci e quindi rampollo di una delle famiglie fasciste più in vista di Terni. Il giovane Claudio si mise a leggere gli scritti di Marx e Lenin e venne folgorato sulla via dell’ideologia comunista. Al punto da intraprendere, all’inizio, una azione di proselitismo tra i giovani di Piediluco. “Un paese – precisa l’autore – che, insieme a Marmore e Papigno, era conosciuto per le idee socialiste e comuniste dei suoi abitanti”. Incontrava i giovani in piazza oppure in barca sul lago, senza neppure tanti timori, in un periodo durante il quale bastava poco per spedirti al “confino”. Figurarsi se ti mettevi a diffondere un ciclostilato con idee contrarie al fascio com’era “La Scintilla” scritta la Claudio Bracci.
Del primo nucleo, da lui reclutato, fecero parte, i piedilucani Ido Crisostomi, Vero Zagaglioni e Brenno Diociaiuti. A Papigno, il giovane sarto Ezelino Androsciani, insieme a Bruno Zenoni, che aveva già conosciuto il “confino” in alto mare. Alle Tremiti, Ponza e Ventotene, erano finiti, in precedenza, altri 13 ternani, tra i quali, i più noti, Remo Righetti, Germinal Cimarelli, Vincenzo Inches, Dazio Pascucci. Operava in città un infiltrato della polizia fascista, l’OVRA appunto, che cominciò a fornire informazioni sul conto dei pericolosi marxisti, capeggiati da Bracci. Però toccava andarci cauti in quanto il giovane Claudio aveva, come già detto, origini familiari di provata fede.
Pian, piano vennero messe insieme le prove necessarie all’arresto. Suo e del resto della “banda”. Scrive Marcellini: “In pochi giorni, il gruppo Bracci, il più longevo dei nuclei comunisti organizzati, a Terni, durante il ventennio fascista, venne messo fuori combattimento”. Finirono in cella (era il mese di maggio 1939) Bruno Zenoni, Brenno Diociaiuti, Ezzelino Androsciani, Emilio Proietti, Ido e Settimio Crisostomi, Vero Zagaglioni. Tutti deferiti al famigerato Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Delle sentenze di questa asservita, Corte di giustizia, avevano fatto le spese, anni addietro altri due ternani ed uno spoletino, condannati a diversi anni di reclusione semplicemente per il reato di “distribuzione di volantini propagandistici antifascisti”.
Il processo Bracci ebbe inizio ai primi di gennaio 1940, dinnanzi ad un collegio giudicante in camicia nera, presieduto da un Luogotenente generale e da 6 Consoli della Milizia, cioè alti gerarchi della MVSN. La durezza delle decisioni, Marcellini la spiega con le parole contenute nel decreto istitutivo: “per colpire (i sovversivi, si capisce), non solo severamente, ma rapidamente, in modo che la funzione di prevenzione e quella satisfattoria della legge penale, possano realizzarsi con il massimo dell’efficacia”. Voleva dire che, nei confronti dei dissidenti, così com’era stato sin dagli albori dello squadrismo, con gli strumenti del manganello e dell’olio di ricino, il nuovo mezzo di offesa non poteva consentire inutili discussioni. Infatti, non erano previsti avvocati difensori, se non in rari casi eccezionali. La giustizia vera, veniva considerava una perdita di tempo.
Infatti, bastarono pochi giorni per emanare la sentenza. Il 31 gennaio 1940, anno XVIII dell’Era Fascista – questa la data in calce al provvedimento – dichiarò gli imputati “responsabili dei reati in accusa” (tranne Zenoni, assolto per insufficienza di prove). Bracci si prese 17 anni di reclusione da scontare nel carcere duro di Civitavecchia, dal quale uscì soltanto dopo la caduta di Mussolini, nel 1943. Androsciani, Ido Crisostomi, Zagaglioni e Diociaiuti ebbero 4 anni, Settimio Crisostomi e Proietti 3 anni. Si trattò ovviamente di uno dei tanti processi farsa, gestiti dal regime per contrastare persino ogni forma di critica che potesse insinuare nell’opinione pubblica un pizzico di sfiducia nell’uomo mandato dal destino e di affievolimento dell’ardore del popolo combattente. Era la filosofia del “credere, obbedire e combattere” e del nemico nascosto in permanenza dietro il sacro confine della Patria.
I “complici” del pericoloso Claudio Bracci, se la cavarono con pochi mesi di prigione, in quanto usufruirono di alcuni atti di clemenza, mentre per il capo il calvario non finì con l’uscita dal carcere. A Civitavecchia s’era segnalato come “irrequieto, indisciplinato e politicamente pessimo”, al punto da collezionare numerose punizioni a “pane, acqua e pancaccio”. A Roma, dove era andato ad abitare, arrivarono le truppe di occupazione naziste e, dopo la costituzione della R.S.I., pure i fascisti ripresero vigore. E qualcuno dei caporioni si ricordò di Bracci junior e delle sue mire rivoluzionarie. Quindi, altro arresto e invio in un campo di concentramento italiano. Partì dalla capitale sopra un camion con altri reclusi. Durante il viaggio, un aereo americano mitragliò l’automezzo e, nel parapiglia conseguente, il “pericoloso bolscevico” riuscì a fuggire.
La Questura di Roma fece la sua brava segnalazione al Capo della polizia perché fossero avviate rapide ricerche. Però, non ci fu tempo, ormai tedeschi e fascisti erano in fuga. L’avv. Marcellini allora conclude la sua puntuale trattazione del Caso Bracci così: “Proprio in quei giorni, gli Alleati, superate le difese naziste a Cassino, avevano ripreso ad avanzare verso la Capitale”. Una marcia su Roma – mi permetto di aggiungere – questa volta per la definitiva liberazione dalle mire guerrafondaie e dalle angherie di una dittatura durata vent’anni, tra frasi storiche scritte sui muri, fino alla distruzione materiale e morale del nostro Paese.