Di Adriano Marinensi – Sul muro di un casolare, a Città di Castello – “amarcord”, c’era ancora negli anni ’60 – il capo del regime di colore nero, in piena frenesia autarchica, aveva fatto scrivere: “L’avvenire dell’Italia è nella ruralità”. Una corbelleria smentita dalla storia, nel bene e nel meno bene. Poi, s’era fatto riprendere, in stile coltivatore diretto, sopra la trebbiatrice, lui il maschio dominante, a torso nudo e atteggiamento gagliardo. Frasi roboanti e atteggiamenti grossolani, in un contesto invece, quello dell’agricoltura, molto impegnativo e complesso per milioni di italiani.
Nel dopoguerra, imparammo a guardare altrove, verso l’industria che produsse il boom economico e la classe operaia andò in paradiso. Lo sviluppo ha preso un’altra strada e l’agricoltura è stata sorpassata, le campagne si sono spopolate, scolorando purtroppo usi, costumi e tradizioni. Fu un “attraversamento di confine” nient’affatto semplice e neppure indolore. Le radici storiche del nostro Paese, comprese quelle dell’Umbria, stavano nei campi, dove il barone ci metteva la terra e il mezzadro la fatica. Un sistema di vita sul quale s’era incardinata, per generazioni, quella struttura di lavoro. Poi, passata la temperie bellica, la politica di sinistra entrò in campo e nei campi, a gamba tesa, al grido “la terra ai contadini”. Per ironia della sorte, fu però il Ministro di un Governo democristiano, Amintore Fanfani, a dare avvio alla “riforma agraria”. Nonostante i suoi limiti, pose una forte ipoteca sulle grandi aristocrazie terriere.
Quella scritta qui appresso è una piccola pagina di vita sociale che non ha il posto che merita nei libri di storia. Eppure, l’evento è emblematico di quell’ “attraversamento di confine” poc’anzi citato. La Gazzetta del Mezzogiorno, nel 1951, documentò il primo passo, fatto nella zona di Torre Alemanna, ex feudo principesco, nell’Agro di Cerignola, provincia di Foggia. Si racconta di un tavolo allestito nell’aia di una casa colonica, con dietro un Ministro (Fanfani, appunto), un Notaio e un Messo ministeriale che recava 130 buste, ciascuna della quali contenente la documentazione e il nome dell’assegnatario di un pezzo di terreno. Davanti al tavolo, s’era radunato, sin dalla prima mattina, un gruppo di braccianti che stavano per diventare ex braccianti.
Tra loro – si legge nell’articolo – c’è Vincenzo Di Bartolomeo, fu Francesco, di anni 46, insieme alla sua numerosa famiglia. L’altoparlante lo chiama e lui, si presenta, col vestito scuro come merita l’occasione, però timoroso e frastornato. Gli viene consegnata una busta legata con il nastro tricolore, che lo qualifica, a norma di legge, proprietario terriero. Ha l’animo in subbuglio quando si sente dire: “Vincenzo, da oggi, parte di questa terra è tua”. Il signor Ministro gli porge la mano ed accresce l’imbarazzo. Perché, Vincenzo nella sinistra tiene la coppola e nella destra la busta. Allora, “si ficca la coppola sotto l’ascella – sta scritto nel resoconto della cerimonia – la preziosa busta la passa a sinistra e porge la mano libera e callosa a quella più delicata di Fanfani”. Il cronista d’allora conclude: “Tranne le lacrime che gli arrossano gli occhi, Vincenzo non mostra altre manifestazioni emotive. Indifferenza, ingratitudine? No, attonito stupore di chi – dopo aver avuto fedele compagna della vita la miseria – stenta a credere alla improvvisa fortuna capitatagli”.
In quell’aia, quel giorno si lottizzava. Non per costruire palazzi stellari e assiemare condomini litigiosi. Invece per assegnare la terra a chi la lavora e coronare la speranze di intere esistenze. D’ora in poi, Vincenzo Di Bartolomeo, fu Francesco si alzerà al mattino, sempre di buon’ora e sempre per le stesse opere, però potrà guardare al campo – come la sposa all’amato – e dire finalmente sei mio. Non verrà più il fattore a spartire il raccolto. Rimarranno si le mani dure dello zappatore, ma non si dovrà più desiderare la “roba” d’altri.
La fortuna, in quegli anni, è arrivata per tanta gente delle remote contrade del sud, gente che, da sempre, aveva identificato la felicità con la proprietà della terra. L’ossequio, falsamente devoto a “voscienza”, era dovuto più alla sua “campagna” che a lui; perché ai tempi di allora, podere significava potere. I giovanotti cercavano di realizzare una sorta di “matrimonio fondiario” con la ragazza dell’orto accanto per espandere il “possedimento”. Soprattutto nel meridione, ma non solo (in Maremma, nel Fucino) furono espropriati gli appezzamenti superiori ai 300 ettari e indennizzati quasi 3000 proprietari di circa 700.000 ettari di terreno coltivabile.
L’Italia meridionale, nel medesimo tempo, ebbe anche un altro importante strumento di sviluppo: la Cassa per il Mezzogiorno, istituita con la legge 10 agosto 1950, n. 646. Oggetto, la creazione di un Ente di diritto pubblico, destinato a finanziare iniziative, attraverso la individuazione programmata di aree demografiche depresse. Forse è utile ricordare che, per un lungo periodo, gli incentivi della Cassa hanno operato in territori limitrofi all’Umbria: il reatino e il circondario di Cittaducale. Se la superstrada Terni – Rieti fosse stata realizzata nei tempi dovuti, la localizzazione delle seconde lavorazioni dell’acciaio e della chimica, che allora si andava cercando, sarebbe stata a portata di mano. Usufruendo delle opportunità offerte dalla legge 646.
L’affezionato lettore che ha avuto la pazienza di leggere fin qui, merita ora, un argomento meno “pesante” per concludere. Rimaniamo ancora all’inizio degli anni ‘50 ed all’ambiente paesano – campagnolo, per non uscire dal seminato. Ebbe fortuna una serie di film comici, però di “colore” socio – politico, con due straordinari protagonisti, Gino Cervi e Fernandel. A fare da trama, i racconti di Giovannino Guareschi, incentrati sulle spassose figure di Peppone e don Camillo, rispettivamente Sindaco e Parroco del Comune di Brescello. Peppone di rigorosa fede marxista, difensore dei paesani sanguigni come lui; don Camillo, un pretone grande, grosso e per niente mite, l’esatto contrario di don Abbondio. Animarono, con le loro avventure in contrasto, cinque film di successo, riproposti, in questi giorni, da un canale TV. C’è il compagno Sindaco che vuole battezzare, però regolarmente in Chiesa, il figlio appena nato e mettergli nome Libero Antonio Lenin e il Presbitero che pone in atto continue azioni di disturbo ai progetti del capopopolo. E non guarda troppo alla forma, quasi sempre sopra le righe dell’insegnamento evangelico.
Il Crocifisso, con il quale ha un colloquio diretto, lo rimprovera spesso e una volta gli dice: “Don Camillo, ricordati che le mani del Prete sono fatte per benedire”. E lui, nel dare un calcio a Peppone, argomenta: “Le mani si, Signore, ma i piedi no”. Era la riproduzione cinematografica del clima che aleggiava nei borghi dell’Italia del primo dopoguerra, con la contrapposizione tra comunisti e cattolici, e – a Brescello, come in Umbria – tra l’eletto del Signore e l’eletto dal popolo. Quadri di vita georgica, in molta parte tratti dai dissidi reali, che però alla fine si componevano in una sorta di “compromesso storico” ante litteram, per il bene delle piccole comunità.