La decisione della Giunta Tesei di aumentare da uno a tre i giorni previsti per il ricovero per l’aborto farmacologico, diventa un caso nazionale. I primi a reagire manifestando la propria contrarietà erano stati in Umbria gli esponenti dell’opposizione (i consiglieri di Pd, 5 Stelle e Bianconi) subito seguiti dalle associazioni femminili (non femministe).
Di “Ritorno al Medioevo in Umbria” parla in un post su facebook la senatrice del Movimento 5 Stelle Emma Pavanelli: “Ecco la “pillola” di Pillon – dice – avallata dalla presidente Tesei che calpesta i diritti della persona per ingraziarsi il consenso di una lobby di elettori. Poi chi se ne frega se molte donne cadono nella tela dell’aborto clandestino, pericoloso e mortale, molto spesso operato dalle stesse persone che per facciata fanno i falsi moralisti…”.
Pronta la replica del leghista Simone Pillon: “La Giunta umbra ha agito con buonsenso, garantendo la piena tutela della salute delle donne. La decisione sull’aborto farmacologico è conforme alle linee guida del ministero, che precisano come sia ‘fortemente sconsigliata la dimissione volontaria contro il parere dei medici prima del completamento di tutta la procedura, perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi’”. Ma il fronte di chi pensa che si tratti di un “grave passo indietro” si allarga.
Determinata e convinta anche la presa di posizione della presidente leghista, che dopo le polemiche sulla cancellazione dell’aborto farmacologico in day-hospital, si prende tutte le responsabilità del caso. “Pillon non c’entra, ho deciso io, seguendo il ministero della Sanità”.
A tal proposito vale la pena ricordare che la legge 194 prevede che una donna possa abortire esclusivamente in ospedale, lasciando alle Regioni la possibilità di organizzarsi diversamente, quindi quanto deciso dalla giunta umbra di Donatella Tesei è pienamente legale.
Il fatto che la precedente amministrazione regionale di centrosinistra, guidata da Catiuscia Marini, aveva previsto la possibilità di abortire, grazie alla pillola Ru486, entro la settima settimana di gravidanza, chiedendo agli ospedali di effettuare la prestazione in day hospital o tramite assistenza domiciliare era comunque in linea con quanto avviene in molti paesi europei, dove l’aborto viene praticato somministrando la Ru486 senza bisogno di ricovero. Nello specifico, negli Stati del Nord il 90% delle interruzioni di gravidanza avviene in questa modalità e in Francia il 60%. In Italia, invece, si registra solo un 18%, nonostante le associazioni di ginecologi siano più volte intervenute affermando che si tratti della pratica meno pericolosa.
In realtà la giunta Tesei non proibisce l’aborto farmacologico con la Ru486, ma impone che venga effettuato in ospedale, per motivi di sicurezza nella donna che abortisce. Ossia per tutelare la salute della donna davanti ad alcuni possibili rischi che si possono presentare con la Ru486 e che in alcuni casi hanno anche provocato la morte delle donne che ne avevano fatto uso. Il ricovero ospedaliero per l’aborto farmacologico implica tre giorni di ricovero.
In osservanza a quanto raccomandato dal Consiglio superiore di sanità, la stragrande maggioranza delle Regioni italiane prevede l’effettuazione della procedura farmacologica in regime di ricovero ordinario.
Il farmaco, in uso da vent’anni nella maggior parte dei Paesi, controllato con tecniche di “post marketing surveillance”, non sembra avere gravi effetti collaterali, anche se è evidente che ci possono essere rischi concreti, come forti emorragie. Non è stata però dimostrata l’eventualità di decessi strettamente correlati al farmaco, anche se per molto tempo questa eventualità è stata tra le principali ragioni per uno stretto monitoraggio delle donne che ricorrevano a questo tipo di aborto.
La Ru486 è un antiprogestinico di sintesi utilizzato come farmaco, in associazione con una prostaglandina, per indurre l’interruzione della gravidanza per via farmacologica, entro i primi 49 giorni di amenorrea. Ossia entro le prime sette settimane dall’inizio della gravidanza. Il farmaco, che si assume per via orale, è stato introdotto in Italia nel 2009, dopo una lunga battaglia, ed è commercializzato in Italia e in Francia con il nome Mifegyne, mentre negli Stati Uniti col nome di Mifeprex. Il trattamento consiste nella somministrazione di due diverse compresse: la prima ha come principio attivo l’anti-progesterone vero e proprio (Ru486 o mifepristone, 600 mg), e si prende subito, per via orale; la seconda contiene una prostaglandina (misoprostolo, 400 mg) che, assunta 24-48 ore dopo, stimola ulteriormente le contrazioni uterine, provocando l’espulsione dei tessuti embrionali.
Il ministro della Salute, Roberto Speranza, davanti alle proteste e alle polemiche sollevate da più parti in Italia ha formalmente richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche, in merito all’interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico. L’obiettivo è capire se la salute della donna sia sufficientemente tutelata anche con la somministrazione della Ru486 in day hospital o se invece siano realmente necessari tre giorni di ricovero in ospedale, come stabiliva l’ultimo parere in materia
Il ministro evidentemente ha ben presente che le linee guida del ministero della Sanità emanate nel 2010, quando la Ru486 arrivò in Italia, consigliavano i tre giorni di ricovero. Attualmente in molte Regioni, dalla Toscana all’Emilia, dal Lazio alla Liguria, l’aborto per via farmacologica può essere fatto in day hospital.
Ma se il ministro intende spostare il centro del dibattito sul piano strettamente scientifico, alla ricerca di evidenze che propongano una sufficiente garanzia per la donna che decide di abortire per via farmacologica, nel centrosinistra, tra LeU, Pd e M5s le cose hanno assunto, come era immaginabile, la fisionomia di un deciso scontro politico.