Di Adriano Marinensi – La prima scena di questo giallo col morto è ambientata in un Commissariato di Roma. Il Funzionario di polizia sta interrogando uno dei numerosi sospettati dell’omicidio scoperto qualche giorno prima. Si chiama Pietro De Negri, titolare di una toelettatura per animali di compagnia. Pettina i cani al Quartiere Portuense, zona popolare dell’Urbe, dove c’è la monumentale Porta Portese. Con il nome e cognome, Pietro De Negri, dalle sue parti, lo conoscono in pochi, invece come “er canaro” è molto noto. E’ tossicodipendente e piccolo malavitoso all’occorrenza, tipica espressione di un mondo gremito da soggetti legati alla illegalità che, verso la fine degli anni ’80 del ‘900, dava il carattere ad alcune zone della periferia romana.
A metà febbraio 1988, in un prato trasformato in discarica, non lontano dal Portuense, è stato rinvenuto il cadavere, orrendamente mutilato di Giancarlo Ricci, 25 anni, ex pugile dilettante di mezza tacca, che usa la sua prestanza fisica per atteggiarsi a bullo del quartiere. Il più tiranneggiato “dar più de borgo” è proprio “er canaro”. Il quale lo odia, ma ne è ammirato, quindi passivamente subisce le sue angherie. Patisce in silenzio, però si nutre di rancore e progetta la vendetta. Ora sta dinnanzi al Commissario che gli chiede, secondo la prassi poliziesca: Cosa hai fatto il 18 febbraio? Perché, a quel giorno risale la morte del Ricci. De Negri, all’inizio – così s’usa tra quei bricconcelli di piccolo cabotaggio – “se butta a santa nega”. Lui, per carità signor dottore, è innocentissimo. Poi, d’improvviso, inizia un racconto allucinante, per la mostruosità di certi passaggi, al limite dell’incredibile.
Il 18 febbraio si trova nel suo negozio di tosacani. Non ne può più di Ricci, dei suoi soprusi, delle umiliazioni pubbliche e ha studiato un piano satanico per farla finita. Lo chiama al telefono e gli dice: “Ho per le mani uno spacciatore pieno di quattrini. Vieni a bottega che lo rapiniamo”. Per meglio organizzare il colpo e giovarsi dell’effetto sorpresa, invita “er pugile” a nascondersi dentro una grossa gabbia per la custodia degli animali. A questo punto – almeno stando al racconto – il piccolo David ha imprigionato il grande Golia. Fa scattare la serratura e da inizio allo sconvolgente spettacolo di torture e tormenti. Onde operare al meglio, si è fatto di cocaina e quindi è in preda ad una allucinante esaltazione. Ricci, dapprima sorpreso e stupefatto, diventa furioso. L’aguzzino gli butta in faccia della benzina, gli da fuoco e lo colpisce in testa con un bastone. La vittima ora è distesa sul fondo della gabbia, svenuta. De Negri la tira fuori e la lega saldamente ad un grosso mobile. Quando Ricci rinviene e si mette a gridare, l’altro alza la musica a palla di un registratore.
La narrazione si fa truculenta e, in alcune parti, irripetibile. “Er pugile” è li che ruggisce e spasima per il dolore, mentre “er canaro” lo continua a colpire, lo sbeffeggia e lo spregia sadicamente. Poi interrompe per un po’ questa sequenza da mattatoio, per andare a prendere sua figlia a scuola e portarla a casa. A questo punto, il Commissario fa un rapido collegamento con la precedente deposizione di altro interrogato. Gli ha riferito un amico del Ricci: “Quella mattina l’ho accompagnato dinnanzi al negozio del canaro; ho atteso a lungo, sinché De Negri è uscito, dicendomi che il colpo con lo spacciatore era andato male e Giancarlo se l’era svignata dal retrobottega”.
Dunque quel che sta narrando il tosacani appare verosimile. Si prosegue con una serie di particolari da pelle d’oca, sottolineati quasi con vivo compiacimento, forse per assaporare meglio la sua nemesi tragica. Il Commissario, pure esperto di delitti, è attento ed attonito. Comincia la serie delle mutilazioni a danno del malcapitato, con il taglio delle dita e di altre parti del corpo. Ricci rischia di morire dissanguato. No, non in modo rapido “er canaro” ha prevista la conclusione del suo gioco al massacro. Cerca allora, con altra benzina, di cauterizzare le ferite. E il calvario prosegue. Secondo quanto “recita” De Negri, con l’asportazione di altri organi “esterni” e delicati.
“Er pugile” è un uomo forte, pur se mezzo ammazzato, continua a resistere e “er canaro” a martoriare. A suo dire, sei lunghe ore è durato l’immondo spettacolo. “Sin quando – sottolinea ancora De Negri, mostrando una gran voglia di protagonismo – si è deciso a morire”. Un modo di crepare che doveva essere, per la vittima, l’equivalente doloroso del rancore accumulato dal carnefice, in anni di vessazioni. Adesso c’è da disfarsi del cadavere. Lo trascina nella sua macchina, per poi scaricarlo in mezzo ai rifiuti, opportunamente incendiato. Due giorni dopo, lo ritroverà un tizio che portava dei cavalli al pascolo.
Sarà andata così oppure in altro modo? La mostruosità del delitto fu tale che la stampa d’ogni genere non si fece sfuggire lo scoop, accreditando totalmente nell’opinione pubblica quella sorta di romanzo orripilante scritto dall’assassino. Si parlò del peggiore delitto mai commesso a Roma. Nella rubrica “I Misteri d’Italia” si legge: E’ difficile trovare negli annali del crimine italiano, un livello di violenza pari a quella con la quale un piccolo uomo massacrò un uomo grande e grosso, in un degradato quartiere della Capitale.
C’è però un libro, “Sangue sul Tevere” che invece tenta di accreditare una diversa versione dei fatti. Fatti usciti dalla mente di De Negri ottenebrata dalla droga e dall’odio; e per ridare dignità alla sua figura di ometto da poco, di fronte alla gente del quartiere. Come l’ha esposto “er canaro” sembra infatti il copione di un classico horror. Nessun dubbio sulla parte finale, lo smaltimento in discarica del morto; per il resto i dubbi sono legittimi. La madre della vittima avanzò un’altra ipotesi: De Negri aveva attirato, dietro compenso, il suo Giancarlo nella bottega, dove altri, forse per un regolamento dei conti nell’ambito della malavita legata allo spaccio, lo avrebbero ucciso. Al tosacani solo l’incarico di eliminare il cadavere.
Qualcun altro, tra i bene informati, ha sostenuto che la morte di Ricci è stata provocata da numerose martellate in testa e per sopravvenuta emorragia cerebrale, in poco più di mezz’ora. Le mutilazioni sarebbero state inferte post mortem dall’assassino. Che, senza alcun ragionevole dubbio, come spesso si sente dire nelle aule di giustizia, si chiama Pietro De Negri, condannato, per quel delitto e per gli “impicci” di droga, a più di vent’anni di reclusione. E’ uscito, per buona condotta, dopo averne scontati sedici. E poteva mancare il solito film per sollecitare la morbosità di un certo tipo di pubblico? Macché, pare sia in allestimento, con un titolo adeguato: Dogman.