Di Adriano Marinensi – Uno degli episodi destinati al giudizio d’infamia, che ha avuto per protagonisti i masnadieri della Gestapo durante l’occupazione nazista dell’Italia (dal settembre 1943) fu il rastrellamento degli ebrei nel Ghetto di Roma e la loro deportazione nei campi di sterminio. Accadde 76 anni fa, nel mese appena trascorso, all’alba del giorno 16: la retata coinvolse 1259 persone (delle quali 207 erano bambini), quasi tutte appartenenti alla Comunità ebraica. Oltre mille dei rastrellati finirono ad Auschwitz – Birkenau; ne tornarono 16, una sola donna Settimia Spizzichino. Conobbe gli orrori del “blocco 10” nel quale operava il medico aguzzino Josef Mengele. Venne trasferita a Bergen Belsen, dove, alcuni giorni prima della liberazione, si salvò nascosta sotto un cumulo di cadaveri.
L’operazione ACHSE di invasione militare del nostro Paese, era stata progettata da Hitler subito dopo il 25 luglio del 1943, quando Benito Mussolini fu sfiduciato dal Gran Consiglio del fascismo e arrestato dai Reali Carabinieri. Dalla prigionia di Campo Imperatore, lo liberarono (12 settembre) i paracadutisti tedeschi con gli alianti. Il Re, la Corte, Badoglio e quelli con tante stellette erano partiti per Brindisi all’alba del 9 settembre, lasciando l’esercito italiano in una generale confusione.
Subito dopo l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, reso noto l’8 settembre, le truppe tedesche, comandate dal feldmaresciallo Albert Kesselring, occuparono lo stivale. Tranne la parte estrema, conquistata dagli anglo – americani dopo lo sbarco in Sicilia del 10 luglio 1943. Un forte contingente prese possesso di Roma, con a capo il famigerato Colonnello delle S. S. Herbert Kappler. Ricevette da Berlino – dove la “soluzione finale” della questione ebraica era stata già decisa – l’ordine di cattura per tutti gli abitanti del Ghetto di Roma ch’era nell’area urbana tra il Portico di Ottavia e il Tevere.
Nel telegramma, firmato da Heinrich Himmler, il supremo delle S. S., stava scritto: “Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania per essere liquidati.” Kappler allora escogitò un vile ricatto: tenendo segreto l’ordine ricevuto, convocò i responsabili della Comunità e minacciò la deportazione qualora non gli avessero consegnato, entro poche ore, almeno 50 chili di oro. La consegna ci fu, ma lui non mantenne la parola. Durante la notte tra il 15 e il 16 ottobre, un nutrito contingente di militari della Gestapo creò attorno al Ghetto una barriera. Nel rapporto inviato in Germania si legge: “Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione antigiudaica. Sono stati arrestati 1259 individui dei quali 1007 trattenuti. Il trasporto in Germania è previsto per lunedì 18 ottobre”.
Il 16 era sabato, giorno festivo per gli israeliti e le case piene di gente. Tutti in strada quindi con la forza delle armi, molti in pigiama, senza manco il tempo di vestirsi. Intere famiglie, anziani, minori, malati, invalidi, nessuno riuscì a sottrarsi alla furia di quegli aguzzini. Fu il terrore. Tenendo fede al rapporto di servizio, dalla stazione Tiburtina, partirono 18 carri bestiame pieni zeppi e piombati. Il viaggio, in condizioni disumane per la fame, la sete, le tribolazioni, durò cinque giorni. Nel campo di sterminio, il solito rito della tragica cernita che prevedeva i lavori forzati per gli abili, le cavie per gli esperimenti del “dottor morte” e le camere a gas per gli altri.
Herbert Kappler è entrato nelle pagine nere della storia criminale anche per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il 23 marzo 1944, a Roma, in Via Rasella, nel rione Trevi, i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) compirono un attentato dinamitardo contro un reparto di reclute altoatesine in uniforme nazista, causando in totale 33 morti. Negli ambienti della resistenza, la definirono una azione di guerra che però non ebbe alcun effetto sul comportamento vessatorio del comando germanico a Roma. Ne conseguì invece una feroce rappresaglia. Hitler ordino la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Non fu facile per Kappler reperire così tanti condannati a morte. Alla fine, andò in eccesso, perché gli assassinati furono 335, anziché 330. Tutti senza alcuna colpa per quel velleitario attentato. La strade ebbe luogo nelle antiche cave di pozzolana situate sulla Via Ardeatina che, nel dopoguerra, sono state trasformate in sacrario e monumento nazionale.
Non per il massacro, invece per gli uccisi in più, Kappler si prese l’ergastolo in ogni grado di giudizio e fu rinchiuso nella Fortezza di Gaeta. Dove godeva di indebiti riguardi e persino della pensione pagata dal Governo del suo Paese. Ebbe compagno di prigionia un altro “gangster” di guerra, il Maggiore Walter Reder, responsabile, tra gli altri, di veri e propri crimini contro l’umanità commessi a Marzabotto (1830 vittime) e Sant’Anna di Stazzema (560, compresi 130 minori). Il Colonnello rimase a Gaeta sin quando le condizioni di salute si aggravarono e le autorità italiane disposero il trasferimento all’Ospedale Celio di Roma, affidandolo alla stretta sorveglianza dell’Arma dei Carabinieri. Tanto stretta che, il giorno di Ferragosto del 1977, il falso moribondo scomparve misteriosamente. Al Celio andò in scena la grottesca commedia della valigia. La versione quasi ufficiale lo volle infatti evaso dentro una capiente valigia trasportata a mano dalla giunonica moglie Annelise, lungo i corridoi e le scale sino all’auto parcheggiata nel cortile.
Probabilmente, anzi sicuramente, le cose andarono in modo diverso, forse con qualche autorevole connivenza non dovuta. Annelise, al processo ne inventò un’altra. Disse: “Avvolsi il Colonnello in una coperta e lentamente ci avviammo giù per le scale, scendendo un gradino alla volta senza far rumore. Giunti alla macchina distesi mio marito sul sedile posteriore e partimmo.” Pure questo, un racconto da considerare fasullo. Fatto sta che, il giorno dopo Ferragosto, i coniugi si ritrovarono a casa loro, in Germania, bene accolti dalla stampa e meglio ancora dall’Associazione Amici di Kappler, una combriccola di nostalgici del crimine che avrebbe dovuto egregiamente tutelare anche le gesta miserabili compiute in Italia, da Erich Priebke (morto libero che aveva 100 anni), Capitano delle S.S., prezioso collaboratore alle Fosse Ardeatine.
Un posto d’onore in quella proterva Associazione anche per il grande massacratore Kesselring che ebbe l’impudenza di chiedere un monumento per le sue “benemerenze” acquisite durante il periodo dell’occupazione del nostro Paese. Gli rispose Piero Calamandrei: “Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che pietre si costruirà a deciderlo saremo noi.” E nell’invettiva gli ricordò i sassi affumicati dei borghi inermi, le vittime degli stermini, il silenzio dei torturati più duro d’ogni macigno, le montagne che lo videro fuggire. Lui, Kesselring, e i tanti altri mostri demoniaci, violentatori del mondo e della storia.