Di Adriano Marinensi – Quando si compila un programma di governo, nazionale o locale, seppure i problemi indicati e da risolvere siano parimenti importanti, un elenco (che è anche graduatoria) bisogna pur farlo. In Italia, ai primi posti va collocato il ripristino della coesione civile e di conseguenza la rimozione di tutto quanto, negli ultimi tempi, ha contribuito ad inserire apocrifi elementi di avversione. E’ prioritario rimettere al centro la mutualità e l’accettazione umanitaria. L’“irruenza verbale”, troppo sopra le righe, ha finito per generare repulsioni negative ed un clima inquinato.
Occorre provocare il rinascimento delle coscienze che è fondamento di civiltà; il contrario di taluni atteggiamenti di ostentata superbia e dell’attuale minaccia di ricorso rivoluzionario alle piazze, per autoritarie rivalse di potere. La strada da seguire è diversa: una responsabile temperie politica, per l’utile riproposizione di un sistema di autentica democrazia. Tornare dunque alla nobiltà della politica, intesa come potestà del popolo, cosciente però, il popolo, dei propri diritti e dei propri doveri; tra questi c’è il dovere di costruire progresso. Lo stato democratico (e di diritto) si tutela con la collaborazione dei cittadini. Senza alimentare paure e sospetti che rappresentano la zizzania che disgrega, sovverte, altera gli equilibri.
Un nuovo “patto sull’asilo” va negoziato, con l’Unione Europea, in modo autorevole, non autoritario e senza scaricare gli effetti della trattativa sopra la parte più debole. Non è nella tradizione del nostro Paese, che conosce, per averlo vissuto, ciò che oggi impone ad altri. Ci sono tre momenti nella storia del mondo: il passato, il presente, il futuro. Hanno cadenza ciclica, spesso tornano nelle diverse epoche. E richiamano il principio di relatività nella condizione dei popoli.
Estremizzare il concetto di “proprietà nazionale” sottolinea una pretesa più che un diritto. Nel corpo sociale si introducono tensioni che disorientano l’opinione pubblica ed allontanano i cittadini dalla linea di fiducia e di garanzia istituzionale. Una ipotesi è: siamo tutti liberi abitanti del pianeta. Come esserlo merita una ricerca partecipata, senza preclusioni e diffide. Spetta a chi opera in politica il dovere di tessere proficue relazioni nella comunità. Questo, in Italia, da tempo, non succede ed evidenzia la non eccelsa qualità della leadership. Quelli che si atteggiano ad uomini di Stato perdono pesantemente il confronto con gli altri che ricostruirono il Paese e ne determinarono la dimensione mondale. Dobbiamo ripristinare il sentimento della pari dignità d’ogni persona, senza chi viene prima e chi dopo. L’unico discrimine, in termini di attenzione, può essere il maggiore o minore bisogno, non soltanto economico.
C’è la straordinaria novità della comunicazione tecnologica da bonificare per ridurre l’impatto negativo delle esternazioni senza regole, di nessuna valenza culturale. Il che non significa porre un freno all’autonomia di espressione, piuttosto dare spazio all’autogoverno della principale garanzia costituzionale. La storia italiana è ormai pervasa dai sentimenti di tutela democratica e appare deleterio il qualunquismo. Quindi, tornare ad essere tutori di un raffronto delle idee, non condizionato, però neppure degradato a livello di volgare bellicosità; difensori di una società che guarda avanti e in alto.
Nelle sedicenti comunità progredite manca spesso il sentimento di comunione che assegna ad una pluralità di soggetti la ragione dello stare insieme. Essenziale è la tolleranza, il rispetto, il reciproco soccorso, elementi che fanno sentire meno le solitudini, le disparità, le differenze. Insomma, è urgente operare per la riaffermazione di un forte umanesimo, alla riscoperta di una identità plurale e pacifica.
Da un contesto così non poteva essere lasciata fuori la cultura dell’accoglienza, purtroppo emarginata dal diffondersi di talune enfatiche difese del “sacro suolo della patria”. Che celano forse una verità nascosta. Verso talune presenze, ritenute estranee e guardate di malocchio, nutriamo invidia: questi “inferiori” sono stati capaci di arrivare sin qui, da terre lontane; hanno superato spazi enormi, attraversato il mare, sfidato (oppure incontrato) la morte. Forse di questo coraggio nutriamo acrimonia. Un calvario che noi, civilizzati e tecnologicamente all’avanguardia, non saremmo in grado di sopportare. Di fronte a tanto ardimento, gli “inferiori” siamo noi; ancor più quanti ostentano disagio al loro cospetto. Come possiamo non interrogarci sull’aspetto antropologico del problema, principio di base senza il quale lo schiavismo può ripresentarsi in forma nascosta? L’imperativo – va ribadito – è governare l’emergenza con un “pizzico d’amore”.
Mi ha colpito di recente – lo scrivo a margine di queste modeste considerazioni – una amara immagine disegnata da Altan. Due bambini sono uno di fronte all’altro, maschietto e femminuccia. Lui dice: Tu sai già odiare? Lei risponde: Certo, non sono mica nata ieri.