di on. Marina Sereni -Con la direzione di martedì scorso una parte del gruppo dirigente nazionale ha di fatto deciso di abbandonare il Pd e di non partecipare al prossimo congresso. Un esito che in tante e tanti abbiamo cercato in ogni modo di scongiurare e che addolora e disorienta molto i nostri elettori e attivisti.
Non tutti gli esponenti che avevano espresso forti contrarietà verso l’ipotesi di tenere il congresso ora hanno tuttavia scelto la strada della scissione. In particolare Emiliano ha deciso di restare nel Pd e di lanciare la sua candidatura alla segreteria nazionale del partito.
Ho scritto e detto mille volte in questi giorni che dopo una divisione così tutti avremmo perso qualcosa e nessuno sarebbe stato senza responsabilità. Quando si litiga, quando si arriva ad una separazione così profonda, si è sempre (almeno) in due!
Per me la scelta delle minoranze è incomprensibile, sproporzionata rispetto alle distanze politiche, ideologiche o culturali che possono essersi manifestate tra di noi in questi anni. Indubbiamente le divisioni di questi ultimi mesi, in particolare prima e dopo il referendum costituzionale, hanno prodotto un grande logoramento nei rapporti tra le persone e hanno provocato un danno nell’immagine e nel consenso del nostro partito nella società italiana.
Che possiamo fare ora? In questi giorni la Commissione nazionale per il congresso sta definendo tempi e modalità del nostro confronto interno. Non serve rallentare – perché abbiamo molte scadenze a partire dalle elezioni amministrative – non serve accelerare, perché dobbiamo darci il tempo per organizzare una discussione ordinata e per quanto possibile pacata. A breve si saprà chi sono i candidati e le tappe che ci porteranno alle primarie per l’elezione del prossimo segretario. Mentre scrivo Andrea Orlando annuncia la sua candidatura, mentre Renzi ha già fissato un evento al Lingotto di Torino per lanciare le sue idee da candidato segretario. Lo stesso immagino faranno presto anche gli altri.
Ma prima di entrare nel vivo della competizione e del confronto congressuale credo sia giusto porsi alcuni interrogativi.
Noi che rimaniamo convintamente nel Pd come la raccontiamo questa scissione? Con lo spirito di chi pensa di essersi finalmente liberati della zavorra? Pensando di avere davanti solo tifosi del Pd? Oppure cerchiamo di parlare al nostro popolo disorientato? Di sinistra e di centrosinistra, anziani e giovani, di tutte le culture e le provenienze. Attenzione a pensare che siano solo i vecchi militanti provenienti dalla sinistra excomunista ad essere colpiti emotivamente da questa scissione! C’è grande sconcerto tra i giovani, tra i nativi del Pd, tra i cittadini che ci hanno votato e guardano a noi come l’unico soggetto in grado di guidare il Paese nei mari in tempesta di questa fase.
Per questo credo che i dirigenti – a livello nazionale e locale – debbano dedicare attenzione alle reazioni di queste ore. Le proviamo ad ascoltare o le liquidiamo come sentimentalismi? Ripeto, per me la scissione è incomprensibile e chi sceglie quella strada si assume una responsabilità grave. Ma penso che noi non possiamo archiviare quanto è successo con superficialità. Credo anzi che il Congresso debba e possa essere l’unico luogo per dare risposte a chi si domanda se la scissione sia “di fatto” un trauma che snatura il progetto del Pd, che fa del Pd una cosa completamente diversa rispetto all’idea da cui siamo partiti dieci anni fa.
Due questioni mi sembra emergano e riguardano tutti e tutte.
La prima di contenuto: modernità e diseguaglianze; tecnologie e lavoro; globalizzazione e governance dei grandi fenomeni sovranazionali. Abbiamo chiare le domande ma le risposte sono ancora parziali. Sia sul piano dell’analisi (la cassetta degli attrezzi si sarebbe detto un tempo!) sia in termini di proposte politiche e di governo.
Essere di sinistra oggi, guardando al futuro e non al passato, essere parte di un campo progressista più largo che significa? Quali sono i nostri riferimenti ideali e culturali? Per esempio la sostenibilità dello sviluppo, la dimensione ambientale, la soggettività e libertà femminile sono valori aggiuntivi o fondanti? Sono o no utili a ridefinire i capisaldi tradizionali della cultura della sinistra e del cattolicesimo democratico?
Quali sono i pezzi di società che vogliamo rappresentare? Che significa il riferimento ai lavoratori nell’era della fine del lavoro tradizionale? La precarietà è la nuova forma di povertà e di insicurezza, le nuove tecnologie creano opportunità ma distruggono anche posti di lavoro. Ciò richiede un ripensamento radicale delle forme di protezione sociale, delle politiche attive del lavoro, della formazione, del rapporto tra scuola e lavoro. Oppure torniamo ad identificare nell’impresa il “nemico di classe”?
La seconda questione riguarda il partito. Ora sento spesso la parola comunità. Va bene. Ma in una comunità, in una casa comune, in una grande forza politica è inevitabile (e vitale!) che esistano differenze. Abbiamo sperimentato forme nuove di partecipazione e di contendibilita’ della leadership. Ma non abbiamo sperimentato gli strumenti per regolare il pluralismo e per rendere possibile ed efficace la collaborazione tra chi vince e chi perde il congresso. Per me chi perde ha la responsabilità di riconoscere la legittimità di chi guida avendo vinto democraticamente. Ma chi vince deve creare le condizioni per includere le diversità nelle scelte. Possiamo trovare un metodo diverso da un’idea ipermaggioritaria (chi vince prende tutto e decide tutto) e da quella opposta di un congresso permanente (chi perde lavora ogni giorno per delegittimare chi ha vinto)? Per me questo è un punto essenziale su cui spero le diverse candidature abbiano la capacità e la volontà di avanzare proposte anche nuove guardando ai limiti e alle sconfitte di questi anni senza accontentarsi di dare la colpa agli avversari interni.