Di Adriano Marinensi – Se la storia è maestra della vita, allora, di tanto in tanto, alcuni eventi scritti nelle pagine del suo libro vanno utilmente rilette. La storia raccontata non è soltanto esercizio per la memoria, ma fattore culturale che insinua cunei di riflessione. Con il calendario fermo sul mese di novembre a far da riferimento temporale al ricordo, ecco alcuni interessanti accadimenti.
Cominciamo dal giorno 9 novembre 1989, quando, al mondo, giunse notizia di un fatto inusitato: è caduto il Muro di Berlino, una vera e propria fortificazione militare. Lo avevano costruito i sovietici, nel 1961, per impedire l’esodo dalla Germania est verso l’Occidente. Correva in doppia fila per molti chilometri, presidiato, giorno e notte, dalle guardie armate. Era il segno di divisione netta tra due schieramenti politici, tra due ideologie, tra due civiltà. Da una parte la Repubblica Democratica tedesca (DDR), filosovietica, dall’altra la Repubblica Federale di Germania (RFG), filoamericana. In tanti tentarono di scavalcarla quella barriera di cemento armato, alta tre metri e mezzo, e molti persero la vita, uccisi perché cercavano la libertà. Rimase a montare la guardia per 28 anni. Poi, quando il Governo della DDR allentò la rete dentro la quale stavano ristretti i tedeschi orientali, vi fu una reazione dissacrante contro l’odiata barriera. E, in poco tempo, il muro venne preso a picconate da migliaia di cittadini. Ho ritrovato una foto bizzarra: ritrae un bambino che, addossato al muro, vuol fare la sua parte, munito di martello e scalpello. L’assalto alla fortezza fu un segnale emblematico che, in seguito, avrebbe prodotto effetti di enorme rilevanza.
E’ quasi l’alba del 2 novembre 1975, quando, sul litorale di Ostia, viene rinvenuto un cadavere straziato a bastonate e persino schiacciato dalle ruote di una automobile. Lo identificano per Pier Paolo Pasolini di anni 53, una sorta di genio italico che i biografi definiscono “poeta (per esempio, Il canto popolare, Il PCI ai giovani, Alla bandiera rossa), scrittore (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Petrolio), regista (Uccellacci e uccellini, Salò o le 120 giornate di Gomorra, Teorema), sceneggiatore, drammaturgo, giornalista”. E’ indubbiamente tra i maggiori intellettuali del ‘900.
Viene subito arrestato un “ragazzo di vita”. Si chiama Pino Pelosi di Guidonia, mentre girava a bordo dell’auto del morto, un’Alfa 2000 GTV. Sembra che Pasolini lo avesse incontrato dalle parti della Stazione Termini di Roma. Poi, insieme a cena e via verso Ostia per un incontro a luci rosse, di quelli graditi al “genio”. Secondo la sentenza che ha condannato Pelosi, reo confesso, ci fu una lite scaturita da “pretese sessuali respinte dal giovane”. Quindi l’aggressione e lo scempio del cadavere. Era solo, l’assassino? Secondo la scrittrice Oriana Fallaci, fu un delitto di gruppo. Oppure la conseguenza di una rapina degenerata (qualcuno disse: “Je volevamo solà er portafoio”). Oppure qualcosa di più misterioso e premeditato, legato alla politica. Il regista Tullio Giordana, sulla oscura vicenda, ha girato il film “Pasolini, un delitto italiano”.
Alberto Moravia, nel libro “Ho visto morire il sud”, scrive: “Ad un tratto, la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio, lo erano”. Si riferisce agli effetti disastrosi del terremoto che ha colpito l’Irpinia nel 1980. C’era stato già il Belice (1968), il Friuli (1976) e ci saranno l’Abruzzo, le Marche e l’Umbria con il crollo nella Basilica di S. Francesco d’Assisi. Li vidi anch’io quei “nidi di vespe” poco dopo che il sisma li aveva distrutti. Andai a Castelnuovo di Conza, un grumo di case gemellato con Terni per i soccorsi. Vidi borghi ch’erano appollaiati sopra cocuzzoli – come qui da noi Papigno e Miranda – rotolati a valle. Sembrava la rappresentazione scenografica di un bombardamento, ma era tutto vero. Vidi anche l’ira del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, sul ritardo dei soccorsi.
La terra aveva tremato, per più di un minuto, verso le 19,30 del 23 novembre su un’area estesa tra le provincie di Avellino, Salerno e Potenza, in qualche punto con la forza distruttrice del X° grado della Scala Mercalli. Sei milioni di abitanti coinvolti, 2.900 le vittime, quasi 9.000 feriti, 280.000 sfollati, 320.000 abitazioni sfasciate o danneggiate. Vi furono effetti sino a Napoli. A Poggioreale venne giù un palazzo e causò 52 morti; a Balvano, il crollo di una Chiesa durante la messa fece strage di bambini. A S. Angelo dei Lombardi, oggi 4.000 abitanti, 482 morti, a Laviano, oggi 1.400 abitanti, 300 morti. Insomma, un inferno, anzi peggio. Le campagne straziate, i piccoli centri rurali sconvolti, molte comunità gravemente ferite.
D’autunno, nel 1956, in Ungheria, il Partito dei lavoratori aveva eletto a Capo del Governo Imre Nagy, un simpatizzante dei fermenti scoppiati il 23 ottobre, in quel Paese. Ad innescare la miccia della contestazione erano stati gli studenti. Poi, la sommossa aveva preso piede in chiave libertaria e antisovietica. Al Cremlino non la presero per niente bene. Anzi, si decise subito per una azione repressiva. Ai primi giorni di novembre (riecco il mese dove avevamo fermato il calendario della narrazione), l’Armata rossa si mise in movimento e, in poco tempo, giunse in forze nei pressi di Budapest con 200.000 mila uomini e un numero esagerato di carri armati. A Mosca, comandava Nikita Chruscev, Segretario del Comitato centrale, il quale, nel febbraio 1956, aveva denunciato i crimini di Stalin di fronte al XX Congresso del PCUS.
Il 4 novembre venne sferrato l’attacco alla città di Budapest. Parlando alla radio, Imre Nagy disse: “Oggi, all’alba, le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale, con l’evidente intento di rovesciare il Governo. Le nostre truppe sono impiegate in combattimento.” Fu vera battaglia, ingaggiata da uno Stato satellite contro il Paese guida. Una sorta di sacrilegio alla ortodossia dominante. Intollerabile. Infatti, Nagy fu destituito, processato e condannato a morte. Lo sostituì un uomo più vicino alla nomenclatura moscovita, Janos Kadar.
Siamo a Roma, Piazza Venezia, Altare della Patria, Monumento al Milite Ignoto. S’era deciso di onorare la memoria dei tanti soldati rimasti senza nome, caduti durante la guerra 1915 – 1918. Il Ministero competente nominò una Commissione incaricata di individuare undici salme provenienti dai luoghi degli scontri più cruenti. Le bare furono portate a Gorizia, poi ad Aquileia. Nella Basilica di Aquileia, la madre di un disperso al fronte, Maria Bergamas, le passò in rassegna, accasciandosi, per la commozione, dinnanzi alla decima. Quella fu scelta. La caricarono sopra un fusto di cannone e un treno la trasportò a Roma. La mattina del 4 novembre 1921, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III e del Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi – mentre le campane di tutte le grandi Chiese suonavano e dal Gianicolo il cannone sparava i suoi colpi – il Milite Ignoto venne sepolto nel sacello simbolo dentro il monumento che da allora è diventato un Sacrario.