Di Adriano Marinensi – In conclusione del precedente articolo riguardante le elezioni del maggio prossimo, ho elencato i principali Organi istituzionali della Unione Europea e le loro funzioni. Gli sviluppi della situazione riguardante la Brexit (sta per “uscita della G. Bretagna”) richiede un appendice. Perché, l’argomento principale che oggi occupa spazio nell’informazione è l’accordo tra Regno Unito ed U.E. che dovrebbe regolare il “divorzio” in modo indolore ed evitare contraccolpi di carattere politico, economico, sociale. Sul Governo del Regno Unito, guidato da Theresa May (Conservatori in maggioranza relativa e Laburisti all’opposizione) pesano i ripensamenti post referendum e persino le contraddizioni storico – geografiche del territorio.
Ma, vediamo intanto – a titolo informativo – la composizione del Regno Unito (United Kingdom). Ne fanno parte 4 Paesi che formano una sola Nazione: Inghilterra (capitale Londra), Scozia (Edimburgo), Galles (Cardiff) e Irlanda del Nord Belfast). I primi tre compongono la Gran Bretagna, intesa come isola, mentre il quarto costituisce – insieme alla Repubblica d’Irlanda (capitale Dublino) – l’altra grande isola dell’arcipelago nord occidentale. Qui nasce il primo rilevante problema, legato alla Brexit. La Repubblica d’Irlanda, Paese indipendente e prevalente per estensione, rimarrebbe nella U.E., mentre l’Irlanda del Nord seguirebbe il percorso del Regno Unito. Si verrebbe così a creare un confine tra i due Paesi, lungo 400 km, con danno immediato per i cittadini dell’una e dell’altra parte che oggi lo attraversano liberamente. Oltre a pesanti ripercussioni di gestione politico – doganale.
La storia dei tempi passati e recenti narra i passaggi che hanno portato alla odierna conformazione del Regno Unito e le ragioni del “primariato” assunto dall’Inghilterra. Parlano della Corona inglese e del trono sul quale siede, dal 1952, Elisabetta II, regina di una monarchia parlamentare. Con il Canale della Manica ad accentuare la separazione socio – culturale tra la grande isola e il continente. Narra anche la storia il ruolo, per alcuni versi eroico, del Governo e del popolo inglese durante la guerra contro il mostro nazista. Quando sul trono c’era Giorgio VI ed a guidare il Governo, Winston Churchill. Poi l’ingresso nell’ONU (1945) e successivamente nell’Unione Europea (1973), rimanendo però fuori dall’euro.
Gli inglesi – con il referendum del 23 giugno 2016 – hanno espresso la volontà di uscire dall’Unione, seppure con un risultato di stretta misura: 51,9 favorevoli, 48,1 contrari. Essendo un referendum consultivo, si è resa necessaria la ratifica parlamentare per avviare la procedura d’uscita in base all’art.50 del Trattato di modifica sottoscritto a Lisbona ed entrato in vigore a dicembre del 2009. Dispone che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione.” Quindi, visto il voto referendario e l’assenso del Parlamento, il Governo inglese ha dato inizio alle trattative con le Istituzioni europee, per definire una intesa sulle norme di svincolo. Nel novembre scorso è stato raggiunto faticosamente l’accordo. Theresa May si è spesa con tenacia al fine di ottenere il via libera, prospettando i rischi conseguenti alla bocciatura da lei definita “una catastrofe per la democrazia”.
Ora, la questione pregiudiziale potrebbe concretizzarsi nel cosiddetto “no deal”, cioè senza accordo. Una uscita priva di intesa normativa può diventare una iattura, sia per il Regno Unito, sia per i 27 Paesi della U.E. Si tratta di riprendere le trattative in tempi celeri in quanto il termine ultimo per concludere rimane il 29 marzo 2019 e la consultazione elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo potrebbe complicare maledettamente la situazione, già abbastanza intricata. Anche per l’entità della sconfitta della May a Westminster: 432 No e soltanto 202 SI.
Sconfitta che lascia spazio obbligato a tre soluzioni: ridare la parola agli elettori inglesi per un secondo referendum (comunque a dire l’ultima parola sarà di nuovo il Parlamento), allungare i tempi del negoziato e infine, la via d’uscita, molto ripida e pericolosa, del Brexit no deal. La mancata soluzione cercata in Parlamento amplierebbe l’eco della parole pronunciate (quasi una invettiva) dal Procuratore generale londinese verso i Deputati: “A cosa state giocando? Non siete bambini ai giardinetti, siete legislatori”. C’è confusione a Londra, ma anche a Bruxelles dove le posizioni sono un po’ ballerine. Ci soni quelli che tifano per l’uscita “pesante” del Regno Unito, quelli ai quali la ragione suggerisce prudenza e gli altri antieuropei, come taluni nostri “pagliaccisti” che si sentono in prigione e vorrebbero loro evadere, però poi non sanno dove andare. La tesi (sostenuta da Angela Merkel) di un allungamento del termine di scadenza alla tarda estate, pone un interrogativo: restando comunque in piedi la Brexit – “dura” o concordata – che senso avrebbe il voto degli inglesi alle elezioni europee del 23 – 26 maggio? Il Regno Unito ha 73 seggi nell’Europarlamento che dovranno essere ridistribuiti (l’Italia potrebbe avere tre rappresentanti in più). L’ipotesi agita i sonni della nomenclatura a Bruxelles.
Per il momento, una scialuppa di salvataggio è stata gettata, in questo mare alquanto agitato, dalla Camera dei Comuni con la fiducia rinnovata al Governo May (325 Si e 306 No). Un voto – in palese contraddizione politica con la disfatta del giorno prima – che potrebbe rappresentare il lasciapassare per il ritorno al tavolo delle trattative, onde evitare quello che il Presidente Juncker ha definito “il rischio di un ritiro disordinato del Regno Unito dalla U,E..” Il rischio – per esempio – di un periodo non breve di trambusto sui mercati, anche per la mancanza di un protocollo codificato, che regoli i rapporti commerciali (libero scambio ?) tra le due parti. L’auspicio è quindi la ripresa del dialogo finalizzato all’utile e rapida conclusione della vicenda. A meno che, sul cielo del Regno Unito non sia tornato ad aleggiare lo “spirito separatista” che sembrava uscito per sempre dal modo di pensare dei politici inglesi. Un altro “sovranismo” mascherato da orgoglio nazionale. Un regresso secolare.