di Adriano Marinensi – Scrive Italo Calvino nella presentazione del suo “Marcovaldo”, volumetto composto di 20 novelle: “In mezzo alla città di cemento e asfalto, Marcovaldo – manovale non qualificato – va in cerca della Natura”. E si chiede: ”Ma esiste ancora la Natura ? Quella che egli trova è una Natura contraffatta, compromessa con la vita artificiale”.
Il protagonista di Calvino che cerca la Natura (innanzitutto, ma non tutto, quella del verde alberato diffuso, dei grandi parchi, dei boschi) “è un animo semplice … con la particolarità di essere un Buon selvaggio, esiliato nella città industriale”. Città industriale come Terni ? Probabilmente si. Pur non sentendomi un Buon selvaggio, mi capita spesso di scrivere mentre cerco la Natura nella mia città. Nel senso pure di aria pulita, spazi liberi, intelligenza ecologica, rispetto ambientale, cultura della vivibilità. Non mi sento un selvaggio, però, in tempo di gioventù ho vissuto altrove. In periferia, quando il contado aveva ancora dimensioni umane, il sentire insieme, la condivisione sociale. Di sicuro in arretrato con l’arrembaggio odierno del nuovo sfavillante, che però è anonimo, gravato dall’urbanizzazione ad ettaro lanciato. Tale e quale alla seminagione del granturco, coltivato, in maniera intensiva, in vista del solo risultato economico per chi lo ha seminato.
La “semina” del cemento armato infatti è sempre finalizzata al tornaconto che esalta il parassitismo della rendita di posizione, della palazzinocrazia. Come Marcovaldo, mi sono trovato a sognare il ritorno di un po’ di campagna in città, del suo spirito comunitario, della solidarietà civile. Le donne del vicinato che, d’estate, si riunivano a crocchio, nell’ombra dell’androne che c’era sotto casa mia, dedicate ai lavori a maglia oppure alle faccende di contorno dell’orto. Gli spazi non mancavano, le aree aperte nemmeno. I neonati, portati in giro, sopra il passeggino, non avevano i tubi di scappamento all’altezza del loro naso. L’ambiente era rispettoso dell’uomo che, a sua volta aveva premura del creato.
Oggi, in città, il territorio è consumato per intero. Consumato e inquinato, in disarmonia con le aspirazioni del cittadino alla buona vita. Malamente difesa la buona vita dagli assalti dei Piani regolatori, disegnati – a Terni, per esempio – da urbanisti santificati senza miracoli. Non lasciano intravvedere speranze per un ritorno all’indietro, almeno sul terreno dei rapporti umani, che non può essere un desiderio ridotto soltanto a nostalgia. Allora è d’obbligo tener viva l’attenzione sui problemi che crea l’ esasperata messa a dimora dei palazzi e far crescere, intorno ai problemi, il livello di interesse della gente. Per contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” ed anche le frenesie della quotidianità sempre in affanno e talvolta senza pensiero. Il “senza pensiero” delle ore passate dinnanzi al televisore, per assistere a trasmissioni ebeti come “L’isola dei famosi” oppure le stucchevoli fabbriche delle parole, il festival della logorrea, il trionfo dei parlatori e dei parolai, i tuttologi dei dibattiti politici e di intrattenimento.
Nella novella intitolata “Aria buona”, Calvino immagina un medico al capezzale dei tre figli di Marcovaldo. Suggerisce il dottore: “Questi bambini avrebbero bisogno di respirare aria buona, ad una certa altezza, di correre sui prati”. Loro, i bambini, dell’altezza e del verde hanno una concezione urbana. E allora chiedono: “Sui prati come l’aiola della piazza ?” Ancora: “L’altezza, come un grattacielo ?” Loro in città, in fatto di prati e di altezza, questo conoscono. Marcovaldo allora li porta a fare una passeggiata in collina e, quando si fa sera – scrive Calvino – “lo prende la malinconia di dover tornare in quella landa plumbea, stagnante, ricoperta delle fitte scaglie dei tetti e dei brandelli di fumo sventolanti sugli stecchi dei comignoli”.
In quella vista e nella sensazione provata da Marcovaldo, ho riconosciuto il mio stato d’animo ogni volta che son salito sul sopramonte di Cesi o sul “balcone antico” di Miranda ed ho guardato Terni avvolta dalla caligine grigia che pare nebbia e invece è smog. Per fortuna, i polmoni non hanno occhi per guardare, altrimenti, sono certo, si sarebbero gettati dalla rupe pur di non tornare a respirare giù nella valle. Dove ti tocca ascoltare, in tema di ambiente, le esternazioni dell’Assessore delegato, che sembrano confezionate ad arte per allontanare il “premio Attila” ricevuto per la recente strage dei pini.
In città – secondo Calvino (ed ha piena ragione) – esiste un apparato commerciale incaricato della sollecitazione al consumo: “Le cassette delle lettere, ogni giorno, fioriscono come gli alberi di pesco a primavera”. E’ la pubblicità di mille prodotti, seducente al pari degli scaffali del supermercato. Dove chi fa la spesa compra l’utile e l’inutile, approfittando delle “offerte speciali”. Poi esce con il carrello ricolmo anche di leccornie per gli animali domestici, gli amori di mamma e papà. Ai miei tempi il gatto mangiava i topi e il cane gli avanzi della tavola. Oggi, i croccantini sfiziosi e costosi. E il mendico di colore fuori della porta ? A quello solo un invito nella mente nascosto: “Ma vai a lavorare !”
A proposito di pubblicità esasperata, Calvino racconta l’avventura dei tre figli di Marcovaldo che fanno incetta di quei tagliandi dove c’è scritto “buono per il ritiro gratuito di un campione di detersivo”, trovati nelle buche della posta di tanti palazzi. Li “riscuotono” e riempiono la casa di polvere bianca. Poi, quando la Polizia si mette ad indagare su questo strano fenomeno, decidono di liberarsene. Come ? Gettandola nel fiume che, gorgogliando produce miliardi e miliardi di bolle di sapone che invadono la città, “alcune enormi, di dimensioni incredibili – scrive Calvino – si fondevano tra loro e i tetti, i grattacieli, attraverso queste cupole, apparivano di forme e colori che non s’erano mai visti”. E’ la metafora di ciò che sarebbe potuto accadere se l’incalcolabile quantità di detersivo inquinante, finita nei fiumi, poi nel mare, si fosse trasformata in bolle di sapone.
In città, il verde delle colline lo trovi nel semaforo. Ed anche il giallo della ginestra e il rosso dei papaveri. Ma la ginestra e i papaveri non li trovi più. Dal suo punto di osservazione il semaforo cerca inutilmente di frenare la corsa dei motorizzati che, se osservati dall’alto, molto in alto, sopra la distesa di cemento armato, finiscono per sembrarti tante formiche alle quali qualcuno ha calpestato il nido. E’ il “traffico schiaccia gatti”, così lo chiama Calvino, che aggroviglia la città. E lui aggiunge: “In ogni metro quadrato di terreno, dove s’apriva un giardino o un’area sgombra o i ruderi d’una vecchia demolizione, ora torreggiano condomini”. Insomma, come mi è capitato di scrivere, parlando di Terni, diventata anch’essa città verticale, “ogni spiazzo un palazzo”. La vita degli agglomerati urbani (per dirla in linguaggio forbito) così è se vi pare ed anche se no.