– di Adriano Marinensi
Nel raccontare, in un recente scritto, il delitto per passione amorosa, commesso dalla contessa Pia Bellentani, ho nominato casualmente Leonarda Cianciulli, ai tempi suoi, nota al grande pubblico come “la saponificatrice di Correggio”. La guerra era finita da poco, quando, nel giugno 1946, si aprì il processo a suo carico, nel Tribunale di Reggio Emilia. Disse in udienza che i delitti dei quali era rea confessa, non li aveva commessi per denaro o crudeltà, ma per un doveroso tributo di sangue alla madre morta. Le riconobbero la seminfermità mentale e si prese 30 anni di reclusione, previo ricovero in manicomio criminale. Il reato ascritto: tre omicidi volontari, furto delle proprietà delle vittime e vilipendio dei cadaveri.
Questa è la fine della vicenda umana e malfattrice di Leonarda, avviatasi nel 1917 quando (aveva 23 anni) sposa un impiegato del Catasto, in assoluto dissenso dal volere della famiglia che l’aveva promessa ad un altro. Dirà, più tardi, che la madre la maledisse il giorno delle nozze; e una notte di tanto tempo dopo, le apparve in sogno minacciandola di farle morire i figli se non avesse versato “sangue fresco e innocente”. E lei, terrorizzata da tale sbaraglio, concepì il disegno criminoso, soltanto per amore verso le proprie creature. S’era trasferita da Avellino, a Correggio, in Emilia, e nella nuova residenza aveva dato ad intendere d’essere in possesso di qualche potere magico e altolocate conoscenze. Forse per tacitare le voci che la volevano nata dalla violenza operata da un bruto su una ragazzina di appena 14 anni.
La prima a finire nel pentolone della strega si chiama Faustina, settantenne, però ancora comare vogliosa in cerca di marito. Leonarda le garantisce un ottimo matrimonio a Pola e quell’anima semplice ci crede. La finta “mezzana” organizza il delitto in modo da non lasciare sospetti a seguito della scomparsa. Poi, la invita a casa (17 dicembre 1939) e, a colpi di accetta, la uccide. In un suo memoriale, si legge: “Gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi 7 chili di soda caustica, finché il corpo si sciolse in una poltiglia scura. Mischiata con il sangue, la farina, lo zucchero e il cioccolato, ne feci degli ottimi pasticcini per le signore che venivano a farmi visita”.
Dopo Faustina, ecco Francesca Clementina, insegnante d’asilo. E’ disoccupata e Leonarda la lusinga con la promessa di un posto in un collegio femminile a Piacenza. Intanto prepara la trappola mortale e la mette in atto (5 settembre 1940). Francesca finisce pure lei in pentola e la sparizione nel’elenco dei morti in guerra. Ed ecco arrivare nell’antro della maga, la quasi settantenne Virginia, ex cantante lirica di buon livello artistico. Non ha ancora smesso di sperare in un ritorno sul palcoscenico: guarda caso, Leonarda ha proprio, a Firenze, un amico impresario teatrale che può offrire una scrittura. Invece – è ancora il memoriale che parla – “finì (30 novembre 1940) nel pentolone come le altre due. La sua carne era grassa e bianca: quando fu disciolta, ci aggiunsi un flacone di colonia e ne vennero fuori delle saponette profumate, offerte in omaggio alle donne del vicinato”.
Tre persone sparite in un anno appena, malgrado le accortezze adottate dall’assassina, qualche sospetto lo provocano. In più c’è una denuncia di scomparsa presentata in Questura dalla cognata di Virginia. Sono notori i rapporti di Leonarda con le “ricercate” e quindi, le prime indagini a lei vengono rivolte. E neppure presentano serie difficoltà perché lei si mette a narrare le crudeli avventure, legate – dice – a quel sogno minaccioso di sua madre. Per una “interpretazione autentica” di tante sadiche malefatte, furono chiamati in causa uomini di scienza. Era una donna anziana Leonarda e non parve possibile agli inquirenti avesse fatto tutta quella “macelleria” da sola. Invece sì: in 12 minuti replicò l’operazione sul cadavere di uno sconosciuto morto in ospedale. Il gioco guardone, innescato durante il processo, la fece diventare mostruosa arpia, all’inseguimento di una cronaca nera che più nera non si può. L’hanno chiamata la “saponificatrice di Correggio”, ma l’epiteto è incompleto perché, con Faustina ci aveva fatto i biscottini. Gli attrezzi del mestiere (coltelli, seghetti e martelli e mazzuoli), usati dalla Cianciulli nel macabro rituale, sono nel Museo criminologico del Ministero della Giustizia.
Circa in quel tempo, nell’immediato dopoguerra, al km 47 della Via Salaria, nei pressi di Nerola, in un casolare mezzo sgarrupato, vive con la famiglia di Ernesto Picchioni, nativo di Rieti. E’ un irascibile frequentatore di osterie, rozzo e di basso profilo intellettuale, ghiotto di buon vino e amante di baruffose partite a carte. Coltiva il terreno attorno a casa e si dichiara venditore di lumache. Un “prodotto interno lordo” assai risicato che gli fa balenare in testa una idea bizzarra: rapinare chi passa lungo la consolare, proprio dinnanzi casa sua. Il principale mezzo di trasporto di allora è la bicicletta e quindi Ernesto pensa di fermare i ciclisti spargendo chiodi sulla strada. Sceglie con cura quelli da appiedare tra coloro che si mostrano di apprezzabile censo. Si convince che fare il mestiere del serial killer fosse più remunerativo dello zappatore.
E’ interessante, per esempio, quell’avvocato, il quale, in una calda giornata di luglio 1944, sta andando da Roma verso la Sabina, su due ruote, per ragioni professionali. Proprio al km 47, si accorge di aver forato una gomma. Inconveniente non di poco conto, in mezzo alla campagna e sotto il solleone; però – quando si dice la fortuna – a portata di mano c’è un brav’uomo che gli offre aiuto. Lo soccorre, lo invita in casa e lo uccide. Il “ragno” ha tessuto la “tela” con i chiodi e la prima “mosca” vi è caduta dentro. Di “mosche” sospettate vittime del mostro, gli inquirenti ne elencheranno 16; accertate con sicurezza 4, per aver ritrovato i corpi sepolti nell’orto.
Una era passata sopra i chiodi con una bicicletta a motore. Quel pacifico dipendente della Difesa stava andando a far visita a sua madre dalle parti di Rieti. Ernesto gli riserva il solito trattamento omicida, tenendosi il velocipede. Però, il quasi morto di fame, sedicente allevatore di lumache, in sella ad un così prezioso mezzo di locomozione, parve un controsenso ed accentua i sospetti che già gli pesano addosso. Viene arrestato il 12 marzo 1949 e conclude i suoi giorni nel penitenziario di Porto Azzurro dove stava scontando 2 ergastoli e 26 anni di reclusione conseguenti ad una serie di omicidi “premeditati e per futili motivi”. In prigione diede conferma del suo carattere indocile, tentando di aggredire persino il Papa in visita al carcere. Al pari della saponificatrice di Correggio, anche il mostro di Nerola ebbe una attenzione morbosa da parte dell’opinione pubblica. La Settimana Incom, famoso cinegiornale, gli dedicò un suggestivo servizio intitolato “Terrore e morte al km 47 della Salaria”.