Di Adriano Marinensi – Dopo la revolverata di Bologna, il Governo ritenne che la misura fosse colma e decise di adottare drastiche misure di repressione. In primis, la pena di morte contro chi avesse, di li in poi, osato mettere a repentaglio l’incolumità dei membri della Real Casa e di Mussolini. Per il “reato” di antifascismo contestatore, il “confino di polizia”.
Se, all’osteria, ti azzardavi ad esternare pensieri critici, finiva che, nel “mezzolitro”, al posto del vino, ti “servivano” il molto lassativo olio di ricino. Accompagnato, quasi sempre, dalle premure dei manganellatori. I Deputati dell’opposizione, i quali, dopo il delitto Matteotti, si erano “ritirati sull’Aventino delle proprie coscienze” (novembre 1926), in attesa della “totale reintegrazione della legalità”, furono dichiarati decaduti. Tra loro, De Gasperi, Buozzi, Cingolani, Gramsci, Labriola, Lussu, Romita, Turati. Passarono queste leggi sotto il titolo di “provvedimenti per la difesa dello Stato”.
C’era in giro, a quel tempo, in clandestinità, ricercato dalla polizia fascista, tale Michele Schirru, sardo di nascita e anarchico di ideologia. Nel “libro nero” degli attentati al Cavalier Benito, si guadagnò un posto pure lui. Mentre ordiva, a Roma, la trama sacrilega, si invaghì di una ballerina ungherese, tale Anna Lucovsky. Lo arrestarono, insieme a lei, nell’Albergo Colonna, in Via Due Macelli, il 3 febbraio 1931. Tradotto al Commissariato, trasse di dosso un revolver e si mise a sparare. Ferì tre graduati. Sotto stringente interrogatorio (metodo ampiamente in voga all’epoca dei fatti), raccontò di essere venuto in Italia con il proposito di sopprimere Mussolini.
La confessione trovò opportuna convalida – a detta dell’O.V.R.A. – nel rinvenimento, dentro la sua stanza d’alloggio, di un ricco armamentario. Tutto quanto constatato, viste le nuove norme di contrasto all’offesa (compiuta o tramata) delle loro Sovranità ed Eccellenze vostre, a Michele Schirru, il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato inflisse la pena capitale. Puntualmente e subito eseguita, il 29 maggio 1931. L’ “insano gesto” non lo aveva compiuto, ma nella sentenza capitale scrissero: “Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perché il Duce appartiene all’umanità”.
L’ultimo tentativo (vero o falso che fosse, di tanto in tanto il duce inventava un nemico per “ricompattare” il consenso in nome del sacro amor di patria) di eliminare il dittatore, lo sventarono i formidabili “guardiani della rivoluzione”. Siamo nel 1932. L’Impero etiopico non si è ancora affacciato sui colli fatali di Roma. Lo conquisterà, entrando trionfante ad Addis Abeba (5 maggio 1936), in arcione al bianco destriero, il generale Pietro Badoglio.
Nel 1932, la sede dell’ufficio del Capo del Governo è stata trasferita a Palazzo Venezia, in modo da avere un balcone più monumentale e l’affaccio sulla piazza, capace di accogliere adunate oceaniche. Servirà soprattutto al duce per annunziare alla folla delirante (11 giugno 1940) che: “L’ora segnata dal destino della Patria, l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”. Diede l’infausta novella dell’entrata in guerra, con la solita rapsodica oratoria di sempre.
Ai primi di giugno del 1932, proprio dinnanzi all’Altare della Patria, sta un giovanotto “con gli occhi fissi – verbalizzerà la polizia – verso l’entrata del Palazzo Venezia”. Quindi, per quel guardare con insistenza, un individuo losco e molto sospetto. Viene identificato per Angelo Sbardellotto di anni 24. In Questura, sottoposto al consueto trattamento riservato ai poco di buono, confessa di trovarsi a Roma su incarico dei soliti fuorusciti italiani, in veste di aspirante assassino del duce. Per aggravare la sua già precaria posizione, pare abbia raccontato di altri precedenti viaggi in Italia, allo scopo di “mettere in atto il medesimo disegno criminoso”. Per completezza del capo di imputazione, il rinvenimento, nelle tasche del ribaldo di “bombe due e pistole una”. Ce n’era d’avanzo per mandarlo dinnanzi al plotone d’esecuzione e vi finì per comunque garantire la sicurezza dello Stato.
Una pena esemplare comminata da un regime nient’affatto esemplare. Che all’inclito condottiero, scampato a così tanti perigli, pose in capo l’aureola di “uomo mandato dal destino” e, dallo stesso destino, preservato alla gloria dell’Italia. Già, agli albori del ventennio, Il Messaggero (9 giugno 1923) aveva scritto : “Se i gesti di questo superbo uomo latino rappresentano direttamente l’istinto d’opera e di ascensione del popolo, si può ben dire che la sua parola, dolce e fiera, immaginosa e sprezzante, esprime, in una trasparenza di cristallo, tutta la vivente varietà del suo spirito creativo, che mai non ristà”. A completamento dell’opera di quasi santificazione, dopo il salvataggio dalle grinfie di Sbardellotto, l’Osservatore romano ci aggiunse “la cristiana esultanza per il reiterato scampato pericolo del Capo del Governo”.
Durante il XX secolo, il destino dell’Europa si è compiuto tra due colpi di pistola: il primo sparato da Gavrilo Princip, il 28 giugno 1914, a Sarajevo, contro Francesco Ferdinando, che dette inizio alla I^ guerra mondiale; l’altro esploso verso se stesso da Adolf Hitler, il 30 aprile 1945, nel bunker di Berlino, che pose fine al 2° conflitto mondiale. In mezzo gli attentati al Fuhrer e a Mussolini. Maldestri, i sicari italiani, quanto i cospiratori tedeschi del colonnello Von Stauffemberg che, il 20 luglio 1944, azzardarono, senza successo, l’eliminazione del capo nazista con la bomba posta sotto il tavolo nel Quartier generale di Restemburg. Costò la vita persino ad una gloria del nazismo come il Feldmaresciallo Erwin Rommel: sospettato di partecipazione al complotto, fu costretto a suicidarsi (14 ottobre 1944) con il cianuro. Fossero stati tutti più attenti, avrebbero risparmiato al mondo infinite crudeltà e sofferenze.
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