– di Adriano Marinensi
Ci fu un tempo – a cavalcioni degli anni ’30 e ’40 del ‘900 – quando il duello mondiale aveva già combinato un sacco di guai, che venne imposto l’obbligo di possedere in dotazione personale la maschera antigas, dispositivo di protezione respiratoria. Perché, tra le armi di distruzione di massa, c’era il gas asfissiante a fare da minaccia. In verità, già nel 1925, la Convenzione di Ginevra ne aveva vietato tassativamente l’uso. Però, dai nazisti tracotanti ci si poteva aspettare qualsiasi azione di mala guerra. E pure dai furiosi bombardatori alleati.
L’Italia, gli aggressivi venefici li aveva già sperimentati durante la Campagna d’Africa per far sorgere il sole dell’Impero sui colli fatali di Roma. Quando aggredimmo a cannonate e grappoli di bombe, l’Etiopia, il 3 ottobre 1935. Ancor prima, i belligeranti del 1914 – 18, li avevano sparsi sopra le trincee. Per l’epoca, un modo micidiale di offendere il nemico. Nel Corno d’Africa, gli abissini s’erano opposti alle pretese colonialiste di Mussolini ed allora lui, il dux, firmò un telegramma che diceva “autorizzo impiego gas come ultima ratio per supreme azioni di difesa”. Ai generali non parve vero: difesa o non difesa, le bombe caricate a iprite caddero un po’ dovunque sopra obiettivi militari e civili. E per anni su quei massacri calò il “sipario” del segreto militare. Addirittura, sino al 1996, quando, in risposta ad alcune interrogazioni parlamentari, arrivò l’ammissione ufficiale.
Nel corso del conflitto 1939 – 1945, a temere di più le incursioni gassose furono gli inglesi. Il canale della Manica era un corridoio di mare abbastanza stretto seppure presidiato dalla Marina di Sua Maestà Britannica. Considerata la ferocia dei gerarchi hitleriani, pure il gas andava messo nel conto. Agli adulti furono distribuite le maschere antigas, quelle che, quando le indossavi, ti facevano somigliare ad un animale con la proboscide. Brutto da apparire e difficile per respirare. Insomma, una appendice innaturale e molesta. Al pari, per meglio intenderci, della museruola che imponemmo ai cani, povere bestie, per difendere l’uomo dai loro morsi. Il tormento che oggi fa sembrare la “museruola” antivirus indossata dal padrone, come la vendetta del cane.
Per gli inglesi adulti, quella “proboscide” poteva andar bene, ma i bambini ancora nella culla? Il problema era serio assai. Al solito “creativo” brillò in testa la simpatica invenzione: una carrozzina resistente a qualsiasi attacco chimico, che sembrava una cassetta da morto con le ruote ed invece serviva per salvare la vita. Non è dato sapere se la scoperta ebbe diffusione, però le immagini che mostrano le mamme proboscitate che spingono quel marchingegno, ne testimoniano l’esistenza e l’adozione. La guerra “partorisce” anche queste bizzarrie.
Vado ancora una volta di palo in frasca. Ho ritrovato tra le carte della mia ingente mania di conservazione, un libro dalla copertina vivace. Si tratta di una vecchia Carta della democrazia, riguardante la città di Terni, approvata dal Consiglio comunale il 18 marzo 1985. Trentasei anni fa, quasi la preistoria della politica locale, una distanza di tempo che, di solito, cancella la validità degli atti amministrativi. Invece no. Nella fattispecie, l’argomento trattato non mostra segni di scadenza. La democrazia non scade mai, anzi impone una continua ricerca di approdi sempre più avanzati. E’ la democrazia dei diritti civili e di equivalenti doveri e responsabilità. Nella presentazione della Carta – firmata dal Sindaco pro tempore Giacomo Porrazzini – sono elencati principi, norme, indicazioni tendenti a costruire una comunità dotata di strumenti in grado di stimolare il protagonismo sociale, economico e culturale delle forze che la città può esprimere attraverso nuove forme di partecipazione. L’antidoto per una comunità ripiegata su se stessa.
Dunque si parla di diritti, doveri, responsabilità come colonne a sostegno di una ordinata ed efficiente organizzazione locale. I contenuti di maggiore valenza collettiva – ne cito alcuni ad esempio – riguardano la salute, la sanità dell’ambiente, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e l’occupazione di qualità per i giovani; ed ancora si parla di lotta alle emarginazioni, di pari dignità civile, di solidarietà, di pronto soccorso al disagio, di gestione collegiale dei servizi pubblici. E soprattutto si parla del rapporto diretto e costruttivo tra Amministratori e Amministrati, tra il Palazzo e l’agorà, tra il potere gestito e i titolari di quel potere, in un modello di democrazia aperta e avanzata. Non difficile da realizzare in un “municipio” di medie dimensioni, dove la situazione presenta ancora forme non esasperate di quotidianità.
Ho cercato quindi di operare una comparazione tra quelle direttrici ideali ed operative e lo stato attuale del confronto democratico a Terni. Mi sono posta una domanda: In 36 anni, siamo riusciti nel realizzare il progetto di avanzamento tracciato in quella Carta? Oppure il panorama politico – amministrativo presenta segni di involuzione? E’ un tema fondamentale che richiederebbe un esame attento coram populo, con l’intervento delle componenti politiche e culturali; e l’intento nobile di evitare ogni e qualsiasi retrogusto partitico. Potrebbe essere l’occasione per rilanciare utilmente un disegno capace di realizzare vero sviluppo democratico. Un progetto reale e immediatamente eseguibile. Terni mostra di averne enorme ed urgente bisogno.
Torno al livello nazionale per segnalare un recente articolo del collega Mario Ajello, il quale, con chiarezza e coraggio, ha chiosato i termini di una intervista rilasciata dal “pentito” Antonio Di Pietro, oggi semplice assistito dall’INPS, però in tempo non lontano, personaggio di inclito potere. Una sorta di eroe dei due mondi, il mondo (a rovescio) della magistratura prima e della politica poi. Due cavalli di battaglia da lui cavalcati con integrità, però anche con l’irruenza del fantino ardimentoso. Si è detto in parte contrito dei metodi usati nell’epoca del terremoto (di grado elevato) imposto da mani pulite, quella sghemba religione che gli italiani idolatrarono, al punto da danneggiare la bilancia che pesa il diritto.
Una componente di rilievo fu anche il protagonismo e l’esagerazione di potere (sul caso Berlusconi, udimmo: Io quello lo sfascio). No, la giustizia non sfascia, applica la legge nel rispetto dei valori civili. E’ il dovere che deve fare da guida alla “Magistratura inquirente” – diversa dalla “giudicante” – altrimenti accade ciò che lo stesso Di Pietro ha riconosciuto e cioè spesso “si parte con una montagna di accuse per poi partorire il topolino”. Trascurando la suprema virtù rappresentata dal rispetto dei valori della Costituzione che garantiscono la dignità e la libertà d’ogni cittadino; il meccanismo diverso, alla Robespierre, adottato in Italia, favorito pure dalla coda di paglia della politica. E i suicidi, uccisi dal terrore, non si possono resuscitare.