Di Adriano Marinensi – Chi è Rocambole? Ce lo facciamo dire dall’Enciclopedia: il personaggio (creato da Ponson du Terrail) capace di funamboliche avventure che hanno fatto passare, per antonomasia, il suo nome ad indicare chi ne ha compiute di audaci, astute, strabilianti. Rocambolesche, appunto. Lo è stata di sicuro la rapina compiuta, a Roma, dalla banda di “cassettari”, guidata da Massimo Carminati, esponente di spicco dei NAR, detto il “cecato”, per via di un occhio perso in conflitto con la P.S.
L’estate del 1999 fu particolarmente afosa e invitava allo scansafatiche. Ci fu però un ben organizzato gruppetto di malavitosi che, sfottendo la calura, si mise a lavorar sodo per mettere a segno uno dei cosiddetti colpi del secolo. L’idea era di dare l’assalto al caveau della banca, ubicata nientemeno che all’interno della “cittadina della giustizia” di Piazzale Clodio, a Roma. Una specie di fortezza costruita a prova di qualsiasi intrusione, protetta – come si direbbe oggi – “H 24” da un pattuglione di militari armati sino ai denti e da un sofisticato sistema d’allarme. Impossibile dunque anche per l’uomo che pure era riuscito ad andare sulla luna (20 luglio 1969). Per Carminati e company fu invece abbastanza facile. Non erano certo degli sprovveduti come Boldi, Villaggio e Banfi nel film “Scuola di ladri” e il regista non era il “giocoso” Neri Parenti, ma il temutissimo “cecato”, più tardi ricomparso, con un ruolo rilevante, nello squallore di “Roma capitale”.
Pasto ricco mi ci ficco. C’erano in quel caveau 900 cassette di sicurezza, ricolme di ogni bel di dio. Contenevano un enorme tesoro da Paperon de’ Paperoni, un gruzzolone di denari in contanti, fors’anche di dubbia provenienza. E poi, gioielli, oggetti preziosi e tanti documenti, appartenenti a magistrati, avvocati, personale del Palazzo di giustizia, politici, alti gradi con le stellette e “terzi importanti”, aggiungeranno i Giudici. Per superare le difficoltà della poderosa “guardiania” i banditi si affidarono ad uno dei metodi più antichi del mondo: la corruzione, tramite sostanziose “bustarelle” da distribuire tra le sentinelle compiacenti e qualche bancario bisognoso di soldi, per sanare situazioni personali intricate. E corruzione fu.
Verso le nove di sera del 17 luglio 1999, ai cancelli del presidiatissimo fortino giudiziario, si presenta un furgone con al volante il “nero” Carminati e con lui una combriccola ben munita di attrezzature per lo scasso. Le “bustarelle”, già distribuite senza parsimonia, fanno da lasciapassare. Anzi, c’è persino chi si preoccupa di accompagnare gentilmente gli ospiti e disattivare ogni possibile allarme. Giù nel sotterraneo, la situazione è di assoluto favore. Inizia dunque in tranquillità il procedimento di apertura col piede di porco. Però, non c’è da svellere gli sportellini di tutte le 900 cassette di sicurezza. Carminati ha in tasca un foglio con sopra segnati 147 numeri, ben selezionati da chi se ne intende. Si tratta di una operazione chirurgica pilotata che deve portare alla asportazione solamente di ciò che interessa. Si va avanti sino alle 4 del mattino, quando l’operazione “scassaquindici” (anzi, scassa 147) si conclude, con il carico del bottino, in borsoni sportivi, sul furgone. Che esce dal cancello principale, così com’era entrato.
Come in molti gialli d’autore, l’allarme lo danno le donne della pulizie che trovano un bel po’ di disordine in giro. Ne consegue un tumultuoso accorrere di autorità costituite e strabiliate da un fatto masnadiero che, al solo pensarlo, pareva una boutade. Invece, era realmente accaduto. Il maltolto metteva paura non solo per il mirabolante bottino economico, ma pure per la ingente documentazione sottratta. Il settimanale “l’Espresso”, sulla copertina, quell’assalto lo ha definito “Ricatto alla Repubblica”. Sicuramente inquietante per il metodo selettivo usato nella scelta delle cassette manomesse. Come d’uso, ebbe inizio, la ricerca dei mandanti, sempre ipotizzati dietro le quinte d’ogni mistero italiano. Che prevede, secondo la scenografia mafiosa, almeno un “grande vecchio” dal profilo grottesco, manovrare i fili del teatrino e dell’intrico criminal – politico.
In Tribunale, a Perugia, si disse che il colpo aveva mirato “alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare le vittime”. E, si sa bene che ricattare spesso equivale a comandare. Per quanto riguarda l’aspetto finanziario, secondo le sentenze emesse, erano stati razziati “almeno 18 miliardi delle vecchie lire”, intascati dai malviventi con “una azione criminale spettacolare, avente forte carica intimidatoria”. La collaborazione al colpo da parte dei “custodi”, mise in luce – sempre a leggere le sentenze – la allarmante “capacità di penetrazione corruttiva, fin dentro l’Arma dei Carabinieri” (quattro furono i militari della Benemerita, risultati coinvolti). Senza escludere la presenza di “scheletri” in quegli armadi violati.
E questo non era certo un aspetto secondario, in quanto il “furto pluriaggravato” aveva mostrato la vulnerabilità del sistema di sicurezza, nella fattispecie di grado molto elevato, unitamente al potere di certa criminalità organizzata che si era mostrato in tutta la sua tracotanza. Per questo e molto altro commesso, Massimo Carminati lo hanno definito uno dei “quattro re di Roma”. Anche per la attiva collaborazione con la banda della Magliana, una associazione per delinquere dedita al malaffare, dagli anni ’70 in avanti, nel campo delle estorsioni, dei sequestri di persona, delle rapine, sino agli omicidi.
A fare l’inventario delle sottrazioni al caveau, non ci riuscirono neppure i Giudici, anche perché chi aveva la coda di paglia si guardò bene dal presentare denuncia. Parecchi “altarini” rimasero coperti. La condanna inflitta al caporione nero per l’operazione caveau, dal Tribunale di Perugia, è diventata definitiva nel 2010, ma il “cecato” ha evitato il carcere ed ottenuto l’affidamento alla cooperativa del suo “comparuzzo” Salvatore Buzzi, insieme al quale ha fondato l’allegro club di “mafia Capitale”. Per inciso, va osservato che Carminati l’assalto al caveau l’ha portato a termine proprio durante il processo di Perugia dove figurava imputato (insieme ad Andreotti, entrambi assolti) per l’assassinio di Mino Pecorelli, avvenuto nel 1979. Era costui un giornalista, considerato scomodo da un certo mondo e un po’ ficcanaso, fondatore dell’Agenzia di stampa “OP” che, si dice avesse notizie tratte dal memoriale di Aldo Moro, rinvenuto nel covo delle B. R. in Via Monterivoso, a Milano (in parte – altro grande enigma nazionale – da un muratore incaricato di fare lavori di ristrutturazione dell’appartamento).
Pure del “malloppone” in denaro, oro e gioielli, finito in mano a Carminati, si sono perse le tracce. C’erano quindi tutti gli ingredienti per colorare il “romanzo” di giallo, senza però cancellare le tinte fosche delle quali s’ammantava la trama piena di misteri e di connessioni occulte. Tutto quanto messo insieme, per le autorità costituite, una situazione oltremodo imbarazzante.