Di Adriano Marinensi – Andando a rileggere alcune pagine di storia moderna (guai a lasciarle scolorire!), pessima storia, ti assale un senso di misericordia verso quei giovani – alcuni dei quali baciati dal benessere, pur non avendone loro alcun merito – i quali esternano fatui rimpianti per ideologie, universalmente condannate, che hanno devastato il mondo. Qualcuno addirittura, come di recente a Macerata, ostenta quel credo nefasto a mano armata.
Vediamone allora una di tali pagine, scritte dalla penna nazista, intinta in un calamaio pieno di sangue. Molti furono i criminali di quella mala genia. Tra i più noti e famigerati, ho ritrovato Alfred Eichmann (è stato latitante per 15 anni, dopo la caduta del Terzo Reich) e Josef Mengele. Furono due dei tanti che ebbero come contrassegno esterno la svastica, come distintivo interno la crudeltà, per dottrina di vita l’infamia. Eichmann ricoprì un ruolo strategico nella “soluzione finale”, responsabile del traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Lo catturarono, nel 1960, a Buenos Aires, gli Agenti israeliani del Mossad. Rimase impavido e di nulla ravveduto, dinnanzi al Tribunale, durante un processo esemplare: tra i punti fermi del diritto penale internazionale, i Giudici stabilirono che, pure in guerra, “eseguire gli ordini” non è una esimente di responsabilità per atti inumani. Lui ne aveva commessi molti e finì sulla forca.
Josef Mengele, medico e antropologo, altro fanatico hitleriano, mise in mostra i suoi istinti assassini nel lager di Auschwitz, cittadina della Polonia orientale, dove cominciò ad operare quando aveva soltanto 32 anni. Credeva fermamente nella eugenetica nazista, la politica sociale avente come fine la difesa e il miglioramento della razza ariana. Con i suoi esperimenti, realizzati a danno delle “vite di nessun valore” – così chiamava gran parte degli internati – contribuì all’olocausto, il genocidio perpetrato contro gli israeliti e, per estensione, contro tutte le categorie dei cosiddetti (da loro) “indesiderabili”. Nel 1946, ci fu in Alto Adige, un paesotto italiano, diventato quasi famoso, per aver rilasciato falsi documenti a numerosi gerarchi tedeschi in fuga. Grazie a tali correità, Josef Mengele divenne Helmut Gregor, poté imbarcarsi a Genova su una nave diretta in sud America e quindi vivere tranquillo, in Brasile, sino alla morte, avvenuta, nel 1979, per attacco cardiaco, all’età di 67 anni. Venne sepolto con il nome di Wolfgang Gerhard, ma la comparazione con il DNA di suo fratello, permise di accertare la vera identità del cadavere.
Era un medico, però ad Auschwitz aveva maggiore autorità delle S.S. La sua funzione di ricercatore, che gli valse l’epiteto di “angelo della morte”, lo liberò da ogni subordine e da ogni riprovazione per gli atti compiuti all’interno del campo. All’arrivo dei treni, era lui che sceglieva i prigionieri utili al suo lavoro, fatto esclusivamente su cavie umane. Filone di indagine preferito, i gemelli, soprattutto bambini, ed anche zingari e nani; questi ultimi li reputava “incarnazioni anomale”. Tutti quelli che non avevano i requisiti per le sue sperimentazioni finivano nelle camere a gas. L’ignominia razzista eretta a sistema ideologico. Scrisse un medico – deportato ad Auschwitz, assistente volontario per costrizione del truce macellaio (di carne umana) – “siccome la dissezione degli organi per il confronto, deve essere eseguita nello stesso momento, occorreva che i gemelli morissero insieme. A ciò provvedeva, con scrupoloso tempismo, Mengele”. E aggiunse: “Un così alto numero di cadaveri, come in quel luogo, in nessun altra parte era disponibile”. Perciò, una occasione da non perdere. Nella vita d’ogni giorno, i gemelli, quasi sempre, muoiono lontani l’uno dall’altro e quindi una simile opportunità favoriva il miraggio di Mengele d’essere consacrato negli annali delle scoperte medico – scientifiche. Aberrante l’intervento operatorio dei due gemelli uniti assieme, in modo artificiale, per studiarne le reazioni fisiche. Ha testimoniato, alcuni anni fa, una sopravvissuta a quell’inferno, che i suoi genitori, il padre musicista, la madre affermata ballerina, entrarono nel “piano di sterilizzazione nazista” e lei non potette avere altri fratelli.
C’erano poi, nel campo, ulteriori esperimenti praticati sui sani. Mengele li faceva ammalare allo scopo di studiare il decorso della malattia e gli effetti che ne causavano il decesso. Nel campo degli zingari si effettuavano esami e interventi “tutti dolorosi ed estenuanti”. Dei circa 3.000 bambini “trattati” da Mengele, ne sopravvissero solo 200, ma a loro rimase addosso, per la vita intera, la paura e l’orrore delle sevizie subite. Anche l’ultimo treno di deportati fu oggetto della solita selezione da parte di Mengele: c’erano sopra 500 persone, quasi tutte eliminate. Il giorno prima dell’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz, il mostro fuggì, dopo aver impartito l’ordine di uccidere i superstiti: il comando non fu possibile eseguirlo perché erano esaurite le scorte di gas.
Mengele è diventato anche un personaggio cinematografico in due film: “Il Maratoneta” del 1976, con Dustin Hoffman e Laurence Olivier; “I ragazzi venuti dal Brasile”, del 1978, con Gregory Peck, James Mason e ancora Laurence Olivier. Di particolare effetto spettacolare e storiografico, quest’ultima pellicola prende spunto proprio dagli esperimenti del medico nazista che, nella finzione scenica, prosegue, in Brasile, i suoi studi sulla pulizia della razza ariana. Il progetto è creare un altro Hitler. Clonando sangue e tessuti del dittatore, prelevati quando era in vita, Mengele fa nascere 92 bambini con lo stesso genoma del Fuhrer e li affida ad altrettante famiglie. Ciascun padre adottivo di questi bambini, ad una certa data, dovrà morire di morte violenta. C’è dunque da compiere 92 omicidi e lui assegna il compito ad ex nazisti. L’inizio della missione va a buon fine, poi però entra in scena Lieberman, il famoso cacciatore di criminali di guerra, che lo perseguita sino al giorno della morte. La conclusione è che almeno uno dei cloni sia rimasto in vita e quindi purtroppo la stirpe di Hitler sia destinata a perpetuarsi in qualche parte del mondo.
Al di fuori della trama cinematografica, il messaggio si riallaccia al mistero durato a lungo sulla morte del tiranno. La storia ci dice che si suicidò, insieme a sua moglie Eva Braun, sposata, in extremis, nel bunker di Berlino. In quel lugubre sotterraneo, si tolsero la vita anche Joseph Goebbels e la consorte Magda, dopo aver commesso l’ultima turpitudine: l’uccisione dei loro sei figli. I corpi di Adolf ed Eva li bruciarono dinnanzi all’ingresso della Cancelleria ed i sovietici sostennero di aver trovato, in quel luogo, una mascella umana che il dentista personale disse compatibile con quella di Hitler. La leggenda del più grande criminale mai nato al mondo, è proseguita, con numerose segnalazioni e qualche indagine – scoop come quella della CIA, che, tra il 1945 e il 1950, lo ha dato vivo in Argentina. Ora, di sicuro, non esiste più (era nato nel 1889) e la speranza, ad onta dei nostalgici che ho citato all’inizio, è che nessuna madre ne partorisca un altro uguale nei secoli a venire. E nessun Mengele tenti di clonarlo, neppure al cinema.