di AMAR – La pubblicazione della Carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi, ha di nuovo palesato una vecchia “matassa” intricata e difficile da dipanare. Quel potenzialmente ne dà la misura. Sulla base dei 25 criteri per tale operazione, il Governo ha indicato 22 località idonee appunto ad ospitare il grande magazzino di stoccaggio e di lunga vita (quando si parla di radioattività, i tempi si calcolano talvolta in secoli) da costruire, con tutti i crismi della sicurezza, sopra un territorio di 150 ettari, da destinare 120 al deposito e 40 al parco tecnologico. L’elaborato stabilisce che il deposito sarà costituito da 90 costruzioni in cemento armato, dentro le quali verranno collocati i contenitori in calcestruzzo speciale che ospiteranno le scorie, divise in bassa, media ed alta attività. Così, la “palla avvelenata” è stata ributtata in campo, ridando vigore ad una partita ancora tutta intera da giocare. In mezzo, un fantasma con la testa di morto che fa quasi terrore: nel proprio “castello” non lo vuole nessuno.
C’è già stata la protesta eclatante, nel 2003, quando, regnante Silvio Berlusconi, un decreto governativo decise d’imperio di seppellire la “palla” nei pozzi della ex miniera di salgemma esistente a Scanzano Jonico in Basilicata. Apriti cielo! Scoppiò una mezza rivoluzione, con strade e ferrovie bloccate. E il reverendo Parroco del paese a recitare il Rosario insieme ai fedeli. Non se ne fece nulla, salvo stabilire che “entro 18 mesi, sarà identificato un nuovo sito nazionale”. A far data 2021, sono trascorsi 18 anni, anziché mesi, e la storia sta ricominciando daccapo, con gli stesse opposizioni drastiche di sempre.
Quando, in Italia, iniziò l’era dall’atomo per l’energia, c’era il miracolo economico ad attizzare le fregole del Paese. E quella risorsa energetica parve uno degli strumenti necessari a garantire il raggiungimento di nuovi obiettivi di benessere. L’idroelettrico pareva ormai esaurito, i combustibili fossili in mano ai capricci dei petrolieri. In più, nel 1956, la Crisi di Suez, seguita all’annuncio della nazionalizzazione del Canale da parte del Presidente egiziano Nasser, fece balenare le fiamme di una nuova guerra. E l’economia entrò in ebollizione.
Nel 1958, Enrico Mattei dette il via alla Centrale ENI di Latina, coetanea di quella del Garigliano, in provincia di Caserta. Poi, vennero Trino Vercellese e Caorso. Quattro impianti che incamminarono il Paese lungo una strada complicata da percorrere con i mezzi tecnici di allora (successivamente Chernobyl e Fukushima ne dimostrarono le insidie). Il referendum del 1987 ha segnato la fine dell’esperienza in Italia, lasciando in eredità la questione dei materiali contaminati e delle scorie che, ancora oggi, a distanza di oltre 30 anni, agita la vita politica e le paure popolari. Uguale problema riguarda l’Europa. Però, da qualche parte, hanno cominciato a risolverlo. Noi ancora no. La Commissione sostiene che il costo attuale dei rifiuti nucleari europei supera i 500 miliardi di euro e il quantitativo, indicato intorno ai tre milioni e mezzo di tonnellate, continua a crescere. L’Italia è già stata diffidata per il suo ritardo nella costruzione del sito unico di stoccaggio. Che non può certo essere imposto con una legge, ma per scelta condivisa attraverso la partecipazione e il confronto con le comunità e le Istituzioni interessate. Ed ecco allora riapparire il “fantasma” che purtroppo allontana l’approdo finale. Anche se, almeno in teoria, l’impianto (preventivo di spesa 900 milioni di euro) dovrebbe entrare in funzione nel 2029, dopo aver prodotto – parola di SOGIN – “4000 posti di lavoro l’anno per 4 anni di cantiere”.
Ma, chi è SOGIN? Si tratta innanzitutto dell’acronimo che individua la Società Gestione Impianti Nucleare, partecipata per intero dallo Stato, alla quale è stata affidata la custodia protettiva passiva di tutto il materiale, oltre al compito dello smantellamento degli impianti delle 4 centrali e la bonifica dei siti. L’impegno finanziario pubblico rappresenta un “parametro” rilevante del quale occorre tener debito conto. Per rendere l’idea dell’ “inguacchio”, ho chiesto aiuto all’inchiesta condotta sull’argomento, nel 2007, dal settimanale L’Espresso. A tale data, peraltro ormai remota, il riassunto era questo: “25 mila metri cubi di scorie, 24 siti da bonificare, un miliardo di euro già investiti. E la sicurezza è lontana”. Un grido di allarme che, nel testo dell’articolo, veniva supportato da una mappa dell’Italia nucleare piena di buchi neri ad alto rischio; retaggio ingarbugliato del periodo breve quando ci mettemmo a fare il mestiere dell’apprendista stregone.
Considerato che viviamo laddove regna – persino per le cose facili, mica per i miracoli – la lucrosissima (per chi la pratica) lentocrazia, se tanto mi da tanto, temo che per aggiornare all’oggi il consuntivo finanziario dell’operazione di cui trattasi, occorrerà usare grandi numeri. Con annessi e connessi i pericoli permanenti sui territori di “momentanea custodia” dello sgradevole convitato di pietra. Dove, per “momentanea” s’intende un numero imprecisato di primavere a venire.