Di Adriano Marinensi – C’è una Monaca di Monza figura quasi poetica, inserita da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi e un’altra realmente vissuta, seppure in epoca diversa. Si somigliano, però hanno profili psicologici ed esistenziali poco concordanti. La narrazione manzoniana è in linea con lo stile del grande scrittore che evita sempre accenti sopra le righe, mentre la vicenda della vera religiosa è intrisa di aspetti boccacceschi. Insomma, Gertrude ed Egidio del romanzo appaiono attori di un “inserto” letterario; diversamente da suor Virginia (al secolo Marianna De Leyva) e Gian Paolo Osio che realizzarono uno scandalo da far enorme scalpore nella Monza timorata di Dio. Una vicenda piccante lungo lo svolgimento e tragica nella conclusione.
Le figure del romanzo le abbiamo conosciute un po’ tutti sui banchi di scuola: tra i più “assillanti” nelle interrogazioni, don Abbondio, don Rodrigo, l’Innominato, fra Cristoforo, Agnese, Renzo e Lucia, i Bravi e questo matrimonio non s’ha da fare. La storiaccia di Marianna e Gian Paolo è meno nota e si inserisce in una cornice storica che rivela alcuni caratteri sociali ancora legati alla tradizione medievale. Uno di questi si chiamava maggiorascato e consisteva nella regola usata, soprattutto tra la nobiltà, per conservare integro e intero il patrimonio familiare: veniva attribuito al maschio primogenito e le femmine in convento. “Così – a sentir Manzoni – andava il mondo nel secolo decimo settimo.” Fu il “maggiorascato” uno dei motivi che “monacarono” Marianna, piegata dalla volontà prevaricatrice del genitore don Martino, di casata patrizia, a prendere i voti ed il velo, tra le “umiliate” del Monastero S. Margherita, a Monza. Aveva perso la madre di peste in tenera età e affidata alle cure di una zia arcigna e bacchettona. Poi mandata dalle suore per imparare le buone creanze, come si addiceva ad una pulzella di sangue blu.
All’inizio, l’idea di diventare un giorno Madre badessa non le dispiacque affatto. Indossato l’abito (che spesso non fa il monaco e neppure la monaca), si accorse che il suo carattere era in conflitto con le regole della clausura. Ma ormai, tra le recondite frenesie e la realtà, s’erano interposte le solide mura del cenobio. Scrive di suor Virginia – Gertrude, il Manzoni: “Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desideri che non sarebbero mai soddisfatti: tali erano le principali occupazioni dell’animo suo.”
Quindi, le parve un raggio di sole la possibilità di colloquiare con quel gagliardo giovine che stava di casa poco oltre il giardino della badia. Costui si chiamava Gian Paolo Osio, un tipo poco di buono, alquanto gradasso e cuore delle donne. Entrò anche nel cuore di suor Virginia. Costei, per il fatto d’essere di sangue blu, godeva di diversi privilegi e di qualche complicità tra le consorelle. Lei si mise a bramare lui e lui a concupire lei. Non ebbe difficoltà la monaca ad infittire gli incontri con Gian Paolo e di trasformarli in amplessi amorosi. Suor Virginia era pur sempre una sposa del Signore, però la passione fu lo zucchero che, ad entrambi, fece inghiottire la pillola amara del rimorso. Che diventò ambascia quando nacque (e morì quasi subito) il figlio della colpa. L’inciampo fu superato grazie alla omertosa complicità interna. Restava però il pericolo di gettare nel fango il buon nome del Convento. La turbolenta relazione andava quindi interrotta. Senonché, ecco di nuovo suor Virginia con la pancia gonfia e tosto mettere al mondo una pargoletta alla quale furono imposti i nomi di Alma Francesca Margherita. Gian Paolo la portò fuori dal chiostro e se n’ebbero cura, per l’allattamento, prima una balia, poi un’altra ed un’altra ancora. Tutte catechizzate sul dovere assoluto di non profferire verbo alcuno.
Chi invece si fece uscire la lingua fuori dai denti fu una “conversa”, suor Caterina, “diventata monaca solamente per motivi economici” e Gian Paolo decise di sopprimere la chiacchierona. Parlarono ancora il fabbro, poi il farmacista. Il drudo eliminò, di persona, il primo e fece assassinare il secondo. Ormai una voce aveva tirato l’altra e lo scandalo non potette essere contenuto dentro il perimetro del monacato. Intervenne il poderoso Cardinale Federico Borromeo, ordinando una inchiesta che mise in fuga precipitosa Gian Paolo Osio e un paio di religiose fra le più compromesse, che lo stesso Osio provvide a far scomparire. Fugge Osio per sfuggire alla pena allora prevista per un pluriomicida come lui: attanagliamento con ferri roventi, taglio della mano destra, impiccagione e squartamento. Una maialata. Finisce comunque tradito e ucciso in casa di un suo fidato (mica tanto) amico, il conte Ludovico Taverna.
Per Marianna (all’Anagrafe) – Gertrude (per Manzoni) – suor Virginia (per la Chiesa) c’è il processo celebrato dinnanzi al Tribunale Ecclesiastico di Milano con l’accusa di quella “trista storia” che ha recato sommo disdoro alla verginità spirituale del luogo sacro nel quale è stata vissuta. E ne decreta la penitenza severa, meglio, un supplizio, per realizzare in lei la purificazione quasi catartica: passerà alcuni anni in una angusta cella, con la porta murata e tra mille patimenti. Dall’abisso dei sensi, dovrà risalire alla virtù dello spirito che è la soglia della redenzione. Chi ebbe modo di vederla quando aveva 65 anni, la descrisse “una vecchierella, curva, scarna, macilenta”. Sul libro mastro del Convento, ove trascorse gli ultimi anni, sta scritto: “1650, adì 7 genaro, Suor Virginia è pasata a migliora vita”. E sembra in odore di santità. Di sicuro aveva espiato una pena esagerata di fronte al peccato (d’amore) commesso. Purtroppo, la figura della Monaca di Monza, nell’immaginario collettivo, è rimasta il simbolo della scelleratezza.
Testimone del riscatto fu l’anzidetto Cardinale Federico Borromeo, un sant’uomo, accreditato, dal Manzoni, di “purezza evangelica e di pensieri solenni”. Cugino di un Santo proclamato: Carlo Borromeo. Entrambi appartenenti alla ricca famiglia del patriziato milanese, dal XIV secolo ad oggi, proprietaria – lo aggiungo fuori testo – delle Isole omonime, l’Isola Madre e l’Isola Bella, sul Lago Maggiore. Sono famose per via dei palazzi maestosi, arricchiti da giardini di massimo incanto. Due volte le visitai e altrettante volte rimasi abbacinato per così tanto splendore.
Non potevano mancare, per la fregola attribuita all’impiccio, le trattazioni per immagini, sul grande e sul piccolo schermo. Il “copione” era piccante e si prestava ad una interpretazione pure nel filone del genere erotico. Seppure con forzature dovute ad esigenze di visione ed ascolto, le ricostruzioni hanno costeggiato la vicenda co approssimazione. Dunque, un atto di cronaca nera indagato in tre dimensioni: storico, letterario e ad uso di spettacolo. Con suor Virginia (e le sue voglie) personaggio prevalente.