di Adriano Marinensi – Il paragone lo abbiamo fatto in tanti tra la lotta sanitaria al coronavirus e le guerre combattute in armi, nel XX secolo. Noi ternani, ci siamo andati in mezzo con le bombe terroristiche che, quando ti andava bene, salvavi la vita, ma ci rimettevi la casa, ridotta in macerie. La casa dell’operaio delle Acciaierie, costruita con il lavoro fatto di fiamme, fuoco e sudore. Un bene prezioso la casa che, tempo un attimo ed un ordigno, scompariva tra la polvere, insieme a mille sacrifici. Pure un elemento distintivo tra chi era proprietario e chi inquilino. Poi, più avanti, lo status simbol diventerà l’automobile e il suo clacson bitonale, esibito come l’orologio al polso.
A Terni, i sogni di tanti lavoratori e delle loro famiglie svanirono l’11 agosto del 1943. Nel cielo sereno ed immobile di quel mattino – amarcord – un piccolo aereo, parve ricognitore, tracciò un cerchio di fumo bianco sopra la città. Poco appresso, un nugolo di bombardieri ci scaricò dentro l’inferno. E la città divenne un grande camposanto ricoperto di rovine. La vita e la morte si confusero in un tormento di disperazione. C’è, oggi, ad eterna memoria, addossata alla Chiesa di S. Francesco, una grande lastra di ferro sopra la quale sono scolpiti i nomi delle vittime di quella prima e delle altre numerose incursioni. Elenco tragico per la riflessione dei giovani e degli uomini e donne di buona volontà, chiamati a fare da intransigenti difensori della pace.
Non fu colpita, fortunatamente, la casa dei miei nonni, in periferia, dove dimoravo con la famiglia. Alle prime esplosioni, insieme ad altre persone del vicinato, trovammo riparo nella grotta che, sotto l’abitazione, fungeva da ripostiglio e frigorifero. Chi tornò, quel giorno, dal centro urbano devastato, avvertì che molti dei “paraschegge”, simili al nostro, erano diventati delle trappole mortali: i palazzi crollati sopra non avevano lasciato scampo. Allora, il piccolo antro domestico non poteva bastare; occorreva andare in profondità e realizzare altre uscite di emergenza. Per quest’ultimo intento, vennero ricavati due pozzi nel giardino, raccordati con il sotterraneo.
Fu mobilitazione generale per tutti gli uomini validi, residenti intorno, che si improvvisarono minatori. Però senza mine, soltanto dotati di pala, piccone e tanti contenitori d’asporto. Quindi, scava, scava, sempre più giù, un tunnel che, alla fine, è risultato lungo una trentina di metri e con il punto di massima profondità a circa quindici metri dal livello della strada. Tutto ad altezza d’uomo, in poco tempo e una fatica immane; anche da parte della catena umana formata da donne, anziani e ragazzi, incaricata del passamano dei secchi pieni, lungo le scale ricavate nella pietra sponga. Ora eravamo al sicuro, il coraggio della paura aveva fatto il miracolo. In tempo recente, il geologo ha classificato la parte in basso del sotterraneo risalente a circa diecimila anni fa. Ci sono infatti dei sedimenti di duro calcare, a forma di tubo, che avevano all’interno grossi rami d’albero, polverizzatisi durante i secoli.
Quel ricovero, per alcuni di noi, fu il sostituto dell’abitazione: finivamo li sotto ogni volta (e le volte non erano poche) suonava l’allarme. Fu il tempo di Terni e le sirene (dell’Acciaieria). Sirene diverse da quelle ammaliatrici di Ulisse. Quando cominciarono a suonare pure di notte, ci attrezzammo. Due grosse nicchie ricavate nelle pareti diventarono camere da letto; una più piccola fungeva da salotto con le panche di legno per sedere e conversare, passando il tempo inoperosamente triste. Se s’udiva vicino il fragore degli scoppi, come fosse di tuono, si pregava. Nei momenti di maggiore batticuore, qualche avemaria la recitavano sottovoce, farfugliando, pure gli uomini di poca fede.
Il collega di una T. V. privata, anni addietro, mi chiese cosa si provasse quando vicino esplodevano le bombe. Risposi: Ce l’hai presenti i due operai che realizzano una recinzione di legno? Uno regge il palo da conficcare in terra e l’altro ci mena sopra tremende mazzate. A quello che regge il palo, ad ogni colpo di mazza, gli viene la pelle del cappone, il volto gli si raggrinza e il corpo intero si rattrappisce. Era pressappoco così: ogni bomba una mazzata, mazzata e bomba, bomba e mazzata. Alla fine dell’incursione, un forte sospiro di sollievo ti gonfiava il petto. Però il “mazziere” bombarolo ricominciava qualche giorno dopo a menare botte fragorose. Di nuovo, bomba e mazzata. Quell’esperienza violenta ci educò pure alla parsimonia da fanciulli (la tessera annonaria con un bollino per ogni etto di pane) ed alla serietà dei costumi da adolescenti.
Di tali e tanti altri eventi della seconda guerra mondiale sono stato testimone oculare. Invece alcuni della prima (1914 – 18) me li ha fatti conoscere mio padre. Sono figlio di un “ragazzo del ‘99”. L’ultima classe di leva chiamata in armi, alla vigilia di Caporetto, quando molti di loro non avevano (come il padre mio) compiuto 18 anni. In trincea, nel fango e nello sbaraglio, il volto giovinetto e glabro. Lontano, lontano da casa, quasi a raggiungere la frontiera, in un mondo estremo e sconosciuto, con l’uniforme da combattente addosso e il fucile ad armacollo. All’improvviso, l’incubo che però era realtà. Un trauma incancellabile, mi disse.
Scrissero sul muro di una casupola sbrecciata dal cannone: “Tutti eroi! O Piave o tutti accoppati”. Ci arrivarono al fiume e fu la vittoria di Vittorio Veneto. A Bassano del Grappa, c’è il “Parco Ragazzi del ‘99”; a Fossalta di Piave, i Ragazzi del ’99 sono stati dichiarati cittadini onorari perché “sbarrarono al nemico le vie della Patria”. Ebbero dal Comando supremo dell’Esercito italiano, un encomio solenne che comincia così: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico, in un superbo contrattacco, hanno unito il loro ardente entusiasmo all’esperienza dei compagni più anziani.” Insomma, quando i diciottenni di oggi vanno in discoteca, i loro coetanei d’allora andarono a sfidare la mitraglia.
La storia delle due guerre mondiali è scritta in una colossale “biblioteca”. La vicenda della lotta al coronavirus, purtroppo ancora incompiuta, la potremo storicizzare con le pagine dalla cronaca quotidiana. Che sono infinite, ricche di documentazione in parte fondata sui (tragici) “bollettini di guerra” della Protezione civile. Con la doverosa accortezza di redigerla al netto di parte del fiume di parole esondato dai teleschermi. Perché, in T.V., importante è parlare. Logorroicamente.
Ora fatemi uscire, per poche righe, dal pathos delle guerre vecchie e nuove. In una nota precedente ho presentato un protagonista del dopo virus: l’elettrauto chiamato in soccorso delle auto rimaste senza un fiato di batteria. Ce n’è un altro che sta già facendo ottimi affari: è un inventa mestieri, il noleggiatore di cani da passeggio.