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Il sindaco costretto a dimettersi per non perdere il lavoro

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Di Adriano Marinensi – Attenzione: questa della quale parla il titolo, non è storia dei giorni correnti. Anzi, di settanta primavere orsono. Correva l’anno 1948, il secondo conflitto mondiale terminato da poco e Terni stava ancora facendo i conti con tanti problemi e altrettante macerie. C’erano più cose da fare di quelle già fatte. Perché le bombe, prima avevano cacciato quasi tutti i ternani dalle loro case, poi, al ritorno, gli sfollati avevano scoperto una condizione fantasma. Tantissimi operai, che avevano mangiato “pane e sputo” – così si diceva, in vernacolo – per costruirsi una casa, la ritrovarono distrutta. Quell’11 agosto 1943 fu devastante, con mezza città massacrata dalle “fortezze volanti” e centinaia di vittime. Comunque, cinque anni più tardi, a poco a poco, la quotidianità sembrava sorreggere la speranza. Più d’uno era stato richiamato al lavoro.

Anche il ferroviere Comunardo Morelli ricevette l’invito a tornare nel suo ufficio. Molti, in quel tempo e in quella realtà, avranno pensato: Beato lui! Il posto di lavoro restituiva un po’ di certezza ad una esistenza ancora tribolata. Soltanto che il ferroviere Comunardo Morelli non era un cittadino qualunque: era il Sindaco di Terni. Ricopriva l’incarico dall’aprile 1946, per volontà del Consiglio comunale eletto il 31 marzo. Nella prima Assemblea post bellica, composta di 40 membri, sedevano uomini di spicco delle forze politiche locali: Tito Oro Nobili, Carlo Farini, Bruno Zenoni, Luigi Michiorri, Poliuto Chiappini, Renato Rinaldi, Italo Fratini. In Giunta, Assessori come Alfredo Urbinati e Remo Righetti che rimarranno in carica sino al 1960. Tito Oro Nobili aveva un “titolo” particolare: era stato l’ultimo Sindaco della città, fintanto che il fascismo inventò i Podestà in camicia nera.

 
 
 
 

Seduta consiliare iniziale, il 18 aprile 1946. A presiedere, il Consigliere Carlo Farini, assistito dal Segretario generale Giuseppe Navazio. Subito il voto per restituire alla città gli organi esecutivi. Risultò eletto Sindaco Comunardo Morelli; sei i membri della Giunta. Comunisti e socialisti in maggioranza, la Democrazia cristiana all’opposizione. “Opposizione serena e costruttiva – volle precisare Renato Rinaldi – ispirata unicamente ai principi della sana amministrazione e utile al bene del nostro Comune”. I tempi delle dure contrapposizioni ideologiche e dei “bilanci di lotta” verranno dopo. In quegli anni, la ripresa economica e sociale era considerata responsabilità di tutti e ognuno chiamato a fare il proprio dovere.

Alla guida dunque, il Sindaco Comunardo Morelli. Sino al 23 febbraio 1948, quando annunciò al Consiglio le sue dimissioni. Disse: “Desidero dichiarare che la mia determinazione di lasciare l’incarico è dovuta alle esigenze del ritorno in servizio presso le Ferrovie dello Stato. Servizio – aggiunse – che mi obbliga ad osservare un orario di nove ore giornaliere e non mi dà quindi la possibilità di adempiere alle mie funzioni, specie nelle condizioni nelle quali si trova la nostra città”. Qualcuno, su tale dichiarazione, espresse dei dubbi, ma la causa dell’abbandono, forse provocatoria, risultò vera. Ovviamente, il diritto all’aspettativa per adempiere ai compiti di Sindaco non esisteva ancora. E perdere il posto di lavoro per fare l’Amministratore non era possibile. Prima di lasciare, Comunardo Morelli volle richiamare l’impegno della sua Amministrazione, prestato “in un periodo di estrema difficoltà per una situazione resa maggiormente critica dal fatto che, quanto preesisteva di organizzazione, di uffici, e servizi era andato pressoché perduto a seguito dei bombardamenti”. In verità, fu un periodo eroico quello del primo dopoguerra e va dato merito a quanti si cimentarono nei diversi settori della vita pubblica e privata, ricercando la strada del ritorno alla democrazia ed alla normalità. Il problema dei problemi – precisò Morelli – era ancora “la piaga dolorosa della ricostruzione edilizia e dei tanti senza tetto”. Oltre alla miseria, alla disoccupazione, alle luttuose piaghe ancora aperte in moltissime famiglie. E nei rapporti morali e sociali.

L’Assemblea comunale dovette prendere atto delle dimissioni di Morelli ed elesse Primo cittadino Luigi Michiorri, il quale ricoprì l’incarico sino al 1955, quando subentrò Emilio Secci. Poi, Ezio Ottaviani, Dante Sotgiu, Giacomo Porrazzini e Mario Todini. Tutti esponenti della sinistra. Nel giugno 1993, a Terni, ci fu il ribaltone della storia. Dopo quasi mezzo secolo di “bandiera rossa”, il timone del Comune passò di mano: a Palazzo Spada salì il centrodestra con Gianfranco Ciaurro, il quale è restato alla giuda del Comune per sei anni (sino al 18.2.1999). Le elezioni del giugno ‘99 dettero a Terni il primo vero governo locale di centro sinistra, guidato, per dieci anni, da Paolo Raffaelli. Infine arrivò Leo Di Girolamo, immeritatamente, io credo, finito nell’occhio del ciclone.

Ho avuto l’onore e la responsabilità di sedere anch’io nell’aula consiliare di Palazzo Spada, dal 1975 al 1990. Sempre sui banchi dell’opposizione, ma con l’intento di lavorare più per la città che per il Partito (la D. C.) che mi aveva eletto. Il confronto era rigoroso, non altero, con pieno rispetto delle posizioni politiche e, ancor più, delle persone. C’erano ancora i Partiti tradizionali, quelli del dopoguerra, e le ideologie che qualche preconcetto lo imponevano. Negli Organi istituzionali degli Enti locali, è però con la capacità di proposta, con gli atti amministrativi, con la qualità e la rapidità delle decisioni che si deve conquistare fiducia e consenso, i cardini della democrazia. Sia che sia maggioranza, sia opposizione.

Ero e sono convinto che la preparazione culturale, l’esperienza politica (non partitica), la legittimità ideale, l’autorevolezza dell’impegno siano altri elementi essenziali. E strumenti fondamentali, la capacità di analisi e la conoscenza dei problemi, oltre al collegamento con i cittadini, attraverso il canale diretto della consultazione popolare; attraverso un legame permanente tra il Palazzo che ascolta e l’agorà che indirizza. Amministrare significa anche imparare l’arte del costruire, cercare soluzioni per sostenere lo sviluppo. Soluzioni concrete per nobilitare la democrazia diretta. Il resto sono sterili schiamazzi di stampo populista. E se, a Terni, nell’urna, dovessero venir meno questi criteri di scelta, la condizione di precarietà potrebbe diventare crisi profonda e irreversibile. Con i giovani scaraventati nel massimo rischio civile.

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