Di Adriano Marinensi – Il 5 giugno scorso è stato un giorno particolarmente importante. Il suo significato però non ha catturato la giusta attenzione dell’opinione pubblica. Il 5 giugno è la giornata mondiale, dedicata dall’ONU alla tutela dell’ambiente. Un problema diventato esistenziale per l’uomo moderno e strategico per la salvaguardia del Pianeta. E se finiamo di rovinare questo, non ne abbiamo uno di ricambio. Perciò, invece che nel silenzio, occasioni come il 5 giugno andrebbero “celebrate” riflettendo individualmente e coralmente sul tema spinoso dei mutamenti negativi imposti al creato, soprattutto per costruire soluzioni positive ormai indilazionabili.
Occorre dare significato concreto all’espressione usata e spesso abusata, di sostenibilità ambientale. Sostenibilità delle azioni umane nel loro impatto sulla natura, per tutelare la presente e le future generazioni, che appartengono ai discendenti di ciascuno di noi. Abbiamo realizzato una condizione ecologica suicida: l’aver ridotto l’ambiente in precario equilibrio, ci espone a grandi rischi. La scienza dice che, in diverse parti del mondo, siamo all’emergenza, derivata da una falsa concezione della crescita economica e del benessere materiale. In un mondo, ormai globalizzato in molti settori, dove ciascuno getta nei cassonetti mediamente mezza tonnellata l’anno di scarti urbani, in aggiunta a quelli (talvolta tossici e nocivi) delle attività produttive; in siffatto mondo aggressivo, è ineludibile porsi l’interrogativo delle conseguenze e trovare, in tempi brevi, le risposte. Insomma, progresso e natura: questo matrimonio s’ha da fare,
Il tema è così vasto e complesso da costringere ad una trattazione per esempi. Eccone uno. C’è oggi, a destare molta preoccupazione, un illustre infermo, ridotto in pessima salute da comportamenti scellerati proprio di chi lo dovrebbe preservare con la massima cura: è il mare, il “soggetto” che, con i suoi ritmi, regola l’esistenza dell’umanità. Un dato per pensare: “gli oceani – ce lo dicono i biologi – assorbono il 30% dell’anidride carbonica e generano il 50% dell’ossigeno che respiriamo”. Di contro, da epoca remota, l’uomo ha aggredito e violentato il mare. Basterebbero gli effetti disastrosi delle battaglie navali e degli affondamenti dell’ultima guerra.
Nel recente passato, facemmo una scoperta scientifica, connotata come evento storico e rivoluzionario. Abbiamo inventato la plastica, diventata materia prima per ogni prodotto, per ogni esigenza, per ogni comodità. Ne è derivato un uso talmente invasivo e invadente, che sui rifiuti delle materie plastiche è suonato l’allarme rosso. Per comprendere l’enorme dimensione del problema, basta segnalare che, dentro i nostri oceani, sono state individuate 5 (dicesi, cinque) nuove isole formatesi per l’accumulo di rifiuti di plastica.
Stante l’immensità degli oceani, potrebbe sembrare questione marginale. Non lo è affatto, in quanto una di tali “mostruosità”, posizionata tra la California e le Hawaii, ha una superficie calcolata intorno a 1,6 milioni di chilometri quadrati, vale a dire cinque Italie messe insieme. Questi ciclopi immondi coprono enormi spazi marini, assumono un notevole spessore, non sono degradabili, mentre invece si polverizzano e siccome finiscono per somigliare al plancton, diventano cibo per i pesci e i pesci, così nutriti, alimenti nient’affatto gradevoli sulle nostre tavole. I ricercatori ne hanno segnalata una di isola, in formazione, pure nel Mediterraneo, tra la Toscana e la Corsica. E se quelle degli oceani possono sembrare lontane, questa sta appena fuori della porta di casa, nel Mare Nostrum che fa vivere di turismo e di pesca un gran numero di italiani.
C’è stato chi, per rendere meglio l’idea legata alla dimensione del fenomeno inquinante globale, lo ha quantificato così: pensate ad un camion di spazzatura che – ogni minuto – viene scaricato in mare. Quindi, 60 camion l’ora, 1440 in un giorno e 525.600 nel corso di un solo anno. Sembra il classico problema di scuola elementare ed è invece la indicazione quasi visiva del disastro ambientale in atto. Secondo il W.E.F. (non è il W.W.F., ma ha pari autorevolezza), andando avanti di questo passo – nel 2050 – negli oceani, potremmo trovare più plastica che pesci. Forse si tratta di una provocazione, però un invito a riflettere lo è di sicuro. Può fare il paio con l’altro “vaticinio” (Dio ci salvi!) secondo il quale la sesta glaciazione è vicina (una fu quella del cretaceo, 65 milioni di anni fa, con la scomparsa dei dinosauri), questa volta conseguente all’incuria dell’uomo e non alle calamità naturali. Siamo andati sulla Luna e vi abbiamo lasciato attrezzi vari. Per non parlare della incalcolabile quantità di rottami spaziali che girano in orbita e potrebbero anche cascarci in testa.
Mettere in sicurezza le risorse costituisce un’altra priorità. Quindi l’aggettivo “sostenibile” è diventato l’ago della bussola che da la direzione giusta; e il contabile ecologico colui che analizza i dati del consumo e il cervello che fa funzionare la bussola. Le scienze sociali, compresa l’economia, hanno ormai l’obbligo di adeguarsi e scegliere le politiche più efficaci per realizzare gli obiettivi di regolazione di tutto quanto viene usato, per evitare eccessi nell’utilizzo dei materiali strategici presenti in natura. Il petrolio potrebbe essere uno dei prevalenti per l’importanza che ha assunto nel progetto di sviluppo mondiale. Un impegno doveroso riguarda il recupero del debito ecologico contratto con i posteri, anche in termini di contaminazione atmosferica.
E’ pur vero che il secolo XX, con le sue straordinarie scoperte, ha impresso accelerazioni rapide (talvolta prevaricanti i caratteri umani) ai ritmi di evoluzione sociale, principalmente nel settore delle nuove tecnologie; è però dimostrabile che i risultati concreti non sono sempre andati nella direzione giusta e ancor meno gli effetti collaterali. Abbiamo quindi il sacrosanto dovere di riconsiderare il passato per riqualificare l’avvenire. Dev’essere bandita la ricerca di escamotage che consentano atteggiamenti dilatori e comportamenti di scarsa responsabilità. L’ “avviso ai naviganti”, lanciato a ragione dai difensori dell’ambiente, riguarda soprattutto quei Paesi che hanno sacrificato i valori naturali nella ricerca del benessere, in una logica di egoismi nazionali e settoriali insostenibili.
Mi sia consentito di concludere un discorso serio con una (puerile) battuta, riferita proprio alla commistione tra la plastica e le nuove tecnologie, invasori della quotidianità e indici del gap creatosi tra le ultime generazioni. Se tornasse in vita mio nonno buonanima – lui manco un soldo di pensione prendeva – sbalordirebbe nel vedere che, basta inserire una semplice tesserina (ovviamente di plastica) nella fessura del bancomat per avere denaro a volontà. Di sicuro si metterebbe li a “smanettare” con la tesserina, dalla mattina alla sera. Vagli a spiegare che non si tratta di un … miracolo della plastica!