di A M A R – A voler fare un paragone tra il Giro d’Italia che si sta correndo in questi giorni con quelli corsi all’indomani della seconda guerra mondiale, si rischia di mettere a confronto due realtà e due modi di praticare il ciclismo che non si somigliano affatto, né nella forma, men che meno nella sostanza. Basterebbe stimare i distacchi negli arrivi di tappa e nella classifica finale per sottolineare le differenze.
All’epoca, la forma estetica mostrava, per lo più, corridori abbigliati in modo sobrio, la maglia con la sola scritta della marca d’appartenenza, a volte inzaccherati all’arrivo, che manco quella si riconosceva, per via delle numerose strade sterrate, a titar su, in salita, velocipedi (poco veloci) di taglia grossa, il tubolare a tracolla per cambiare da soli la gomma bucata; l’acqua portata dai gregari e attinta alle fontanelle lungo il percorso. Oggi tutto è colorato dalla pubblicità, ogni spazio addosso occupato da scritte d’ogni tipo. Si pedala su biciclette ultratecnologiche e in grado di coadiuvare lo sforzo. Una volta si arrancava, oggi si pedala vorticosamente, come i bambini sul triciclo, a medie orarie pazzesche per i comuni mortali, grazie anche ad una assistenza tecnico – logistica di lusso.
Era ancora quello di allora un ciclismo che aveva un suo fascino fantastico, quasi epico, che proponeva sovente condizioni da sport estremo e fatiche al limite della sopportazione. I racconti dei quotidiani sapevano di poesia e non mancavano le firme di scrittori affermati al seguito del Giro. Non c’era l’ausilio delle immagini e i radiocronisti dovevano dare passione alle parole, persino con qualche iperbole, allo scopo di catturare l’ansia degli ascoltatori. Voci comunque sobrie (per esempio, Nicolò Carosio), affannate sopra mezzi di locomozione che imponevano rischi per l’osso del collo. L’agonismo, tra i campioni era molto acceso e la maglia rosa il sogno di tutti, il traguardo massimo, il crisma che dava un posto nella storia.
Ma, non c’era soltanto competizione per indossare la maglia rosa. Pure quella nera costituiva un simbolo ambito. La vestiva l’ultimo in classifica e prevedeva un discreto appannaggio economico. Pare l’avessero inventata i conduttori di una fortunata trasmissione della RAI, il Giringiro. Attenti a quei due al microfono: si chiamavano Pietro Garinei e Sandro Giovannini, che, poco più avanti negli anni, sarebbero diventati la coppia storica del musical italiano. Per intenderci, gli autori di spettacoli teatrali che vanno da Attanasio cavallo vanesio (Renato Rascel), a Rugantino (Nino Manfredi); e ancora Il Musichiere (Mario Riva), Rinaldo in campo (Domenico Modugno), Felicibunta (Gino Bramieri), Aggiungi un posto a tavola (Johnny Dorelli e Paolo Panelli), Giove in doppiopetto (Carlo Dapporto e Delia Scala). Ma, l’elenco è lungo, avendo loro impreziosito il palcoscenico con lavori di altissimo pregio.
Sostengono alcuni giornalisti, che la scoperta del “distintivo” per l’ultimo della classe al Giro, fu una idea di Garinei e Giovannini. L’enciclopedia libera Wikipedia opta per un’altra tesi: la maglia nera trasse ispirazione da tale Giuseppe Ticozzelli, un calciatore di antica data, il quale decise di darsi al ciclismo. Prese il via nella grande corsa con indosso, eccentricamente, la maglia nera con la stella bianca della “Casale calcio”. Non ebbe fortuna e, alla terza tappa, mentre si recava alla partenza, lo investirono e dovette ritirarsi. Comunque sia, la storia di quel trofeo un po’ bizzarro ebbe lustro durante gli anni dal 1946 al 1951. E ci fece conoscere soprattutto le strampalate imprese di Luigi Malabrocca e Sante Carollo. Mentre Fausto Coppi e Gino Bartali si contendevano il simbolo del primato, altri battagliavano per entrare nell’albo d’oro come maglia nera. Le proporzioni del distacco tra il primo e l’ultimo? Eccone un esempio: anno 1947, Malabrocca impiegò a percorrere il Giro 5 ore, 52 minuti e 50 secondi in più del vincitore Fausto Coppi. Eppure lui, la “maglia nera”, non era un brocco: vinse 15 corse da professionista.
Per quel trofeo si batté tenacemente contro Sante Carollo e vinse 2 (1946 e 1947) a 1 (1948). Entrambi furono sconfitti da Aldo Bini (1949), Mario Gestri (1950) e Giovanni Pinarello (1951). Il modo di correre, nella caccia al posto in fondo, divenne una pantomima che suscitò commenti salaci tra gli appassionati. Gli aspiranti “infimi” ne combinarono di tutti i colori, escogitando mille sotterfugi, senza alcun pudore. Quel gioco a nascondino – nelle osterie, dentro le case coloniche e dietro le siepi – era pure un’arte perché toccava tenere bene d’occhio il cronometro per non arrivare al traguardo fuori tempo massimo e finire squalificati. Nel 1952, si convenne che quei trucchi poco sportivi, recavano disdoro al ciclismo; quindi il premio venne abolito, insieme alla maglia nera. Eppure, portare il segno del primato alla rovescia aveva dato visibilità e procurato applausi. Qualunque moderno politico l’avrebbe indossata volentieri. In verità, quell’andare più piano possibile, in un Paese che stava per conoscere le fregole dell’andare in fretta, può sembrare un paradosso. Comunque, aggiunse al fascino del Giro, un tocco di folclore.
A proposito di ciclismo, di biciclette (e di paradossi), eccola una domanda, di sicuro posta fuori testo, però non peregrina, fatta soltanto per chiudere questa breve nota: che fine hanno fatto, a Terni, le bici da città, che erano state poste a disposizione della gente da parte del Comune al nobile scopo di incentivare l’uso dei mezzi alternativi e silenti, onde ridurre i motori rumorosi e inquinanti? Le rastrelliere, collocate in punti strategici del territorio urbano, ormai da diversi mesi, sono vuote. Ritirate le due ruote per ordinaria manutenzione, invece sono sparite. A voler malignare, forse è possibile dire così: nel traffico urbano, il pedalatore è un elemento minoritario di numero, però di disturbo alla libera, veloce e caotica circolazione degli automezzi. E siccome, gli automobilisti che votano sono tanti e i voti “silenziosi” pochi, meglio eliminare, il più possibile, la componente elettoralmente meno “incisiva”. Se il ragionamento è valido, ce lo diranno le ormai prossime urne di fine primavera. Però, con la speranza di non cadere dalla padella (amministrativa) che sfrigola, nella brace (politica) che scotta. Dalla iattura dell’improvvisazione al potere, ci salvi chi può!