Di Adriano Marinensi – Nei lontani anni del mio “impegno scolastico”, il libro di storia mi ha insegnato che, nel territorio dello Stato italiano esistevano altri due Stati: la Città del Vaticano e la Repubblica di S. Marino.
Il collega Paolo Rumiz, sulle colonne del quotidiano la Repubblica, ne ha descritto un terzo: il Ghetto chiamato Ghana, popolato da persone di colore. Non somiglia affatto a ciò che gli sta attorno, non ci sono regole di vita simili a quelle dei “bianchi normali” (o normalizzati), una “urbanizzazione” del tipo uomini e topi, modelli di vita con le sembianze dei lager.
Si trova in Puglia, dalle parti di Cerignola, provincia di Foggia. Rumiz lo ha definito “uno dei tanti bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia”, dove i bianchi producono e guadagnano e i neri sudano e raccolgono “oltre un milione di tonnellate di soli pomodori l’anno”. Ci vivono centinaia di diseredati che lavorano pressappoco al modo degli antenati nelle piantagioni di cotone. La differenza forse sta nel fatto che i datori di lavoro degli avi erano anche i loro padroni e quindi, seppure per sole ragioni d’interesse (gli schiavi costavano al mercato quanto gli animali), ne avevano un minimo di cura. Nel Ghetto chiamato Ghana, al “caporale” che li recluta, vista la sovrabbondanza di braccia, della integrità dei singoli non gliene può fregar di meno.
Siamo in uno dei campi del supplizio: soltanto la metà ha accesso all’acqua e tutti sopravvivono con un salario – scrive Rumiz – al 50% dei minimi di legge. Perché li la legge vigente e imperante è quella imposta dal caporalato. Passano sopra tanta miseria, in alto, senza vederla, gli aerei in atterraggio a Bari. E – aggiunge Rumiz – “non la vedono neppure le folle dei fedeli, vicinissime, che, a S. Giovanni Rotondo, innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui fa miracoli per gli ultimi della terra”.
Non sembra più Italia. L’Italia dove c’è lo Stato della Chiesa, a Roma. A Cerignola pare di essere nello Stato senza Chiesa, anzi senza Dio; il Dio della misericordia. In mezzo alle baracche sgangherate del Ghetto chiamato Ghana, “l’olfatto non distingue tra guerra e miseria”. I tanti fuggiti proprio da guerra e miseria, questo è ciò che trovano. Loro, i neri non per caso, non potevano saperlo. Non potevano sapere che, dalle nostre parti, chi sa volge lo sguardo altrove. Fa quel che può un piccola task force sanitaria di eroici volontari, che operano spesso ai limiti del possibile. Dicono all’inviato de la Repubblica: “Vuole la verità ? In Africa è meglio”.
Il presidio sanitario (o quel che è) si trova in un camper dove si affollano i pazienti. Anche se, par di capire, nel Ghetto è sconveniente non strar bene in salute. Qui, chi non lavora non mangia (altro che non fa l’amore !). Di nuovo la prosa coinvolgente di Rumiz: “Passa Ibra, disidratato con dolori allo stomaco; Alì con una ciste sul naso; Richmond con un’ernia inguinale, Daniel che ha un piede mangiato dal diabete.” E allora il suggerimento: “Ogni volta che apriamo un barattolo di pummarola, sarebbe cosa buona pensare che, in quel barattolo, c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, lo sterno mezzo sfondato di George”. Ma, figurarsi ! Sulle nostre mense voraci, chi volete che si preoccupi del tribolare nel Ghetto chiamato Ghana. E nei tanti altri campi di raccoglitori stranieri, “in mezzo al fango, la pioggia, il sole implacabile del Sud”. Qui impera l’arbitrio dello sfruttamento, colpevolmente tollerato in e da un Paese, l’Italia, sempre più malata di razzismo, in talune sue zone di benessere.
Sono drammi individuali e pure familiari. Ancora Rumiz: “C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno”. La dignità umana è rimasta fuori il recinto del Ghetto insieme alle cosiddette Autorità civili e politiche. Il giornalista dice di esserci arrivato con fatica e di averlo trovato mezzo vuoto, “perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti della Calabria, a farsi sfruttare, in modo ancora più bestiale, dalla ‘ndrangheta”. In questo terzo o quarto o quinto mondo non ci sono tutele, mentre è normale patire le malattie professionali (mai definizione fu così impropria) dei raccoglitori di carciofi, di pomodori, di agrumi e di tutto quant’altro compete al nuovo schiavismo. Ad ognuno spettano “tirate di dieci ore a riempir cassoni per le aziende di trasformazione”. Un panorama che sa di surreale, invece si tratta di fatti realmente accaduti. E continueranno ad accadere, sin quando chi dovrebbe assicurare legalità e giustizia rimarrà latitante.
Dall’Inferno di Puglia, e non solo di Puglia, il paradiso è lontano. La catarsi, il riscatto forse non arriveranno mai. Perché, la sedicente società civile preferisce far finta di non vedere, di non sapere. Meglio mantenerlo nascosto l’increscioso problema, alla stregua dei signorotti dell’800 che, all’arrivo degli ospiti di ugual rango, nascondevano in altra stanza la figlia impresentabile. Meglio tali brutture farle rimanere sconosciute. Sostiene il Mattia Pascal di Pirandello, quel che non si conosce, non esiste. E vissero tutti, sia gli infelici, sia i contenti.
Ora, la solita appendice che non c’entra nulla con l’argomento appena esposto. Anzi, è a contrasto. Una dolorosa disgrazia ha colpito la famiglia Capriotti – titolare della catena di supermercati Esselunga – per la scomparsa del capostipite Bernardo. E Bernardo, prima di andarsene, avendo uno stuolo di eredi ed un patrimonio da Paperon de’ paperoni, ha fatto testamento come segue. Alla moglie Giuliana ed alla figlia Marina, entrambe di secondo letto, ha lasciato il 70% della anzidetta “catena” ed il 55% dell’Immobiliare e cioè un malloppo difficilmente valutabile. Alla consorte pure una casa al mare ed altra proprietà edilizia con casino di caccia e 4 cascinali, un panfilo e la metà di una eccellente dimora in Grecia. L’altra metà è andata alla predetta Marina, unitamente ad alcuni chilometri sul mare di Corsica e ulteriori 8 milioni di euro.
C’era poi da pensare ai figli di primo letto. Quindi, a Giuseppe e Violetta il residuo 30% dei supermarket e il 45% dell’Immobiliare. Ancora a Giuseppe, due appartamenti, uno al mare, l’altro in Svizzera, la villa di famiglia, la biblioteca di 4000 volumi e qualche quadro d’autore. A Violetta, pure a lei, due case, una al mare e una a New York (sulla 5^ Avenue, mica al Vicolo del Moro !), il castello sul Lago di Como e i soliti quadri di valore come optional. C’era poi da spartire due cospicui conti correnti in banche svizzere e tedesche: metà alla Segretaria (probabilmente di terzo letto), con la solita aggiunta di quadri, e l’altra metà ai cinque nipoti, più quadri anche a loro. Al “Ragioniere d’una vita”(così l’ha definito il sor Bernardo) 2 milioni di euro. C’era rimata in garage una lussuosa automobile marca Bentley: se l’è aggiudicata, il genero nobiluomo, marito di Marina. All’inizio di questa noterella finale, ho scritto – per errore – “una dolorosa disgrazia ha colpito la famiglia Capriotti”. Visto l’albero della cuccagna sul quale sono saliti gli eredi, chiamala disgrazia!