di AMAR – C’è un film, di notevole interesse, che ho visto, tempo addietro, in televisione. Ha per titolo Cristo si è fermato ad Eboli, girato nel 1979, da Francesco Rosi, protagonista Gian Maria Volonté. E’ tratto dall’omonimo romanzo di denuncia sociale, scritto da Carlo Levi, che racconta l’esperienza vissuta dall’autore al confino di polizia, imposto ai “dissenzienti”, al tempo del fascio. Un provvedimento coercitivo, il confino, introdotto con le leggi fascistissime – che proclamarono di fatto la dittatura – a seguito degli attentati alla augusta persona di Mussolini: una pistolettata, esplosa dall’irlandese Violet Gibson, gli aveva appiccicato, per diversi giorni, sul naso ferito, uno sconveniente cerottone, nel contempo esibito quale segno di eroismo e sprezzo del pericolo.
C’era giù stato il tentativo fallito di Tito Zaniboni e poi dell’anarchico Gino Lusetti (una bomba contro l’auto del dux); di Anteo Zamboni (linciato dai camerati bolognesi). Infine, pià avanti, gli altri per mano Michele Schirru e di Pellegrino Sbardellotto, entrambi condannati a morte. La mancata vittima si ebbe, ogni volta, le felicitazioni di un sacco di “alte fere” per lo scampato pericolo. Compreso un notevole Prelato, il quale attribuì alla “Provvidenza celeste l’incolumità del Primo Ministro d’Italia”, definito dal medesimo porporato, “cooperatore del disegno divino con la sua elevata missione.”
Tutti questi tentativi di lesa maestà parvero troppi e si corse a drastici rimedi. Occorreva sospendere le norme di garanzia contenute nello Statuto Albertino, per dare mano libera all’OVRA (la polizia segreta) nella guerra quasi santa agli oppositori del regime. Ogni dissenso rimosso. Magari pure senza usare, in maniera indiscriminata, l’afflizione del carcere che qualche malumore lo avrebbe creato tra il popolo solitamente osannante. Le norme istitutive del confino di polizia (Regio Decreto n. 1848/1926) traevano ispirazione dalle altre emanate, subito dopo l’Unità d’Italia, per reprimere il brigantaggio. Nel 1926 però, non c’erano briganti da perseguire, ma operai, artigiani, professionisti e qualche scomodo intellettuale, veri o presunti dispregiatori della camicia nera. Compresi i tanti che venivano tolti dalla circolazione durante le visite di qualche pezzo grosso in costume pennacchiuto.
Per chi osava contestare, con parole, opere, atteggiamenti ritenuti “diretti a sovvertire gli ordinamenti nazionali”, si trattava soltanto di conoscere il nome dell’isola oppure del paesino di montagna dove trascorrere da uno a cinque anni di isolamento. Lontano dalla propria casa, dalla famiglia, dagli amici con i quali poteva fare deleteria combutta. Bastava una semplice esternazione di idee “disfattiste” per meritare la punizione arbitraria, ingiusta e ingiustificata del confino. Si comprese, sin dall’inizio, che lo “stato poliziesco” era servito. Quanti non ebbero in grande stima i valori della libertà, del rispetto umano, definirono il confino “un periodo di villeggiatura offerto dal regime”. Anziché, ciò che era veramente: una angheria nei confronti di persone colpevoli di reato d’opinione e basta. Condanna talvolta affrontata – così scrisse Antonio Gramsci alla madre – “per conservare l’onore e la dignità di uomini”.
Il confinato, ovunque si trovasse, era un uomo solo, in un ambiente reso a lui ostile, per lo più sottoposto a vigilanza; gli era vietato leggere pubblicazioni poste all’indice dal regime, censurata la corrispondenza. Godeva (si fa per dire) di una esigua indennità, chiamata “mazzetta”, insufficiente a garantite una esistenza almeno dignitosa. Guai a parlare di questioni politiche. D’altro canto, correva il tempo durante il quale, se andavi dal barbiere, sul muro della bottega, in cima allo specchio, in bella vista, c’era un cartello con scritto “qui non si parla di politica, né di alta strategia: Si lavora!” Figurarsi al confino.
La vita del confinato spesso era riassunta in una serie monotona di atti quotidiani, in luoghi lontani da ogni modernità, socialmente suddivisi tra contadini lavoratori e padroni parassiti, tra cafoni da una parte e galantuomini dall’altra. Come ad Aliano, nella remota campagna lucana, dove Carlo Levi trascorse la sua esperienza di condannato al confino. Il titolo del libro Cristo si è fermato ad Eboli trae origine da un detto in uso tra i meschini del luogo, con il quale si intendeva significare che il progresso s’era fermato nell’ultimo centro abitato li vicino: Eboli, appunto. Levi approfitta nello scrivere per analizzare i caratteri di quell’arretrato di civiltà e tratteggia alcuni personaggi “idiomatici” del meridione dimenticato. Per esempio, “Sanaporcelle”, a metà tra un mago ed un veterinario, guaritore di maiali. Perché, la superstizione, il fatalismo, le credenze ataviche stavano ancora ben salde nel genoma della gente. Insieme alla mancanza di ambizioni, di voglia di vita diversa. La sommatoria tra le “gabbie” ideologiche e il feudalesimo ancora presente, formavano una pesante cappa di procurata ignoranza e di sottomissione. Gli uomini in piazza, nei giorni ricordevoli, con il cappello in testa, le donne abbigliate di nero dalla testa ai piedi. E la fatica della campagna a modellare l’esistenza grama.
“Lo Stato – aggiunge Levi, nella sua rigorosa denuncia – è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. La sola possibile difesa è la rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.” Ne scaturisce l’immagine di una realtà allo stato brado, che sapeva di aspro e selvatico. Una condizione sociale dentro la quale hanno vissuto il sopruso dell’ostracismo migliaia di confinati, nel tempo buio dell’antidemocrazia italiana. A differenza dell’antica Atene, non era il popolo a scrivere sul coccio il nome dell’esiliato, ma la barbarie della tirannia.
(3. continua)