di Adriano Marinensi – C’era una volta un Re (d’Italia). Ma non è una favola. Alcuni sudditi (i perfidi fascisti) lo chiamavano “stelassa”, con palese allusione ad una sua scarsa mascolinità, aggiungendoci “biondo era bello e di gentile aspetto, con la faccia da scemo patentato”.
Altri, più costumati, l’hanno definito “il Re di Maggio”, perché il suo regno fu il più corto della storia sabauda: durò appena una trentina di giorni, dal 9 maggio al 13 giugno 1946.
Nacque a Racconigi, in Piemonte, nel 1904, da Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro, quando a Capo del Governo c’era Giovanni Giolitti, al quale la Real Casa fece avere, per quel “natale” d’alto rango, un milione di lire da destinare all’istituto di previdenza degli operai. All’anagrafe della nobiltà, lo iscrissero come Umberto, Nicola, Tommaso, Giovanni Maria. Ma, lo chiamarono semplicemente Umberto, Principe di Piemonte; da Re divenne Umberto II. Per battezzarlo, ci volle il placet del Vaticano, in quanto sui Savoia gravava ancora il peso della scomunica per la Breccia di Porta Pia. Nel mese di marzo scorso (il 18), hanno fatto 33 anni dalla morte (1983), avvenuta in una clinica di Ginevra a causa di un tumore diffuso.
Non si può dire che Umberto sia stato, durante la sua vita, un protagonista politico del nostro Paese. La predominanza del fascismo sulla monarchia e la tenacia di suo padre nel rimanere al posto di comando, lo posero sempre in una posizione non di prima fila. Per indole, lui non amava cimentarsi nelle diatribe di regime e quindi il ruolo che svolse non parve all’altezza di Sua Altezza. Per di più, Mussolini non gradiva averlo tra i piedi, soprattutto in alta uniforme, essendo lui, il maestro di Predappio, il primo guerriero d’Italia.
A fare il resto, sul piano della presunta “diversità” del Savoia figlio, ci pensò l’OVRA, la polizia segreta, confezionando quel dossier denigratorio e ricattatorio all’occorrenza, che venne rinvenuto tra il carteggio del duce in fuga, sequestrato dai partigiani a Dongo. “Gradisca”, gli disse Magali Noel nel film Amarcord di Federico Fellini; se abbia gradito, non è dato sapere. Comunque, il futuro Re di Maggio cercò di sbugiardare le chiacchiere messe in giro ad arte, sposando Maria Josè, Principessa del Belgio e dando alla Patria quattro figli. L’ultima nata, Maria Gabriella ebbe un momento di poco preclara notorietà per l’incontro di amorosi sensi con l’attore (plebeo) Maurizio Arena, uno dei “Poveri, ma belli” del regista Dino Risi.
Siccome i Savoia erano stati tutti Re soldato, pure Umberto (Nicola, Tommaso, Giovanni Maria) venne avviato alla carriera militare che percorse rapidamente, sino ai grado di Generale e, dopo l’8 settembre, di Capo delle Forze armate del sud. La convenienza gli imponeva di mostrarsi gallonato nelle cerimonie ufficiali, se non altro per controbilanciare quel brulichio di petti decorati con medaglie e nastrini, della pomposa gerarchia in camicia nera. Da giovanissimo conobbe il mondo da dentro l’involucro poco trasparente della educazione aristocratica impartitagli da un Ammiraglio, sulla base della severa etichetta di corte. Ebbe una sorta di “battesimo del fuoco” il 24 ottobre 1929, nel senso di un attentato regicida: proprio in occasione del fidanzamento, in Belgio, con Maria Josè, uno studente italiano gli sparò una pistolettata mancandolo di un soffio.
Il matrimonio italo – belga non è che sia stato un perfetto idillio. I due avevano caratteri ed educazione diversi. Lui privilegiava la frequentazione delle feste mondane, lei una vita di più basso profilo, avendo in poca simpatia i metodi grossolani della “banda Mussolini”. La prima apparizione ufficiale delle LL. AA. RR. avvenne ad Assisi, nel 1930, in occasione del matrimonio tra Giovanna di Savoia e il Re Boris III di Bulgaria. Un anno dopo, eccoli di nuovo in pubblico, a Torino, per l Ostensione della Sacra Sindone, allora di proprietà della Casa reale. Alle “sanzioni”, decretate dagli Stati europei a danno dell’Italia per l’aggressione all’Etiopia, la dittatura rispose con lo slancio patriottico della “Giornata della fede”. Non in senso religioso. Ci fu un affollamento della nobiltà savoiarda, nei centri di raccolta delle fedi nuziali, come sostegno alla operazione “Oro alla Patria”.
Vittorio Emanuele III, che da Re era diventato “suddito” e succube del cavalier Benito, a guerra quasi finita, si rese conto che la gloria dei Savoia, in Italia, era al capolinea. Tentò di salvare il trono con la nomina di Umberto a Luogotenente del Regno (5 giugno 1944), poi con l’abdicazione a suo favore (9 maggio 1946). Il 2 giugno 1946, gli italiani, con il Referendum istituzionale, dettero la preferenza alla Repubblica che batté la Monarchia con il punteggio di 12.717.923 voti a 10.719.284. I giorni immediatamente successivi al referendum furono concitati con il Re che contestava il risultato e il Governo a chiedere il rispetto della volontà popolare. Nella notte tra il 10 e l’11, si rischiò lo scontro cruento. D’improvviso Umberto disse ai suoi “non voglio un trono macchiato di sangue”, salì sull’aereo e se ne andò in esilio a Cascais, in Portogallo. Era il 13 giugno 1946.
Con il referendum furono scelti anche i membri dell’Assemblea costituente che nominarono Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato. Quindi, dopo un serrato confronto culturale ed ideologico, emanarono la Carta costituzionale, entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Quelle urne – percentuale 89,1% degli aventi diritto – oltre a dividere in due blocchi gli italiani e le italiane (al voto, per la prima volta, le donne), divisero in due l’Italia. Da Roma compresa in giù prevalse ovunque la Monarchia, con punta massima del 79,9% a Napoli, mentre al centro nord vinse la Repubblica. In Umbria (Circoscrizione di Perugia), il 66,7% condivise l’idea di Mazzini, il 33,3% rimase fedele alla Corona.
I Padri costituenti, nella XIII^ Disposizione transitoria della Carta, scrissero: “Agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale”. Siccome dicesi cosa buona e giusta che le colpe dei padri (e dei nonni) non debbano ricadere sui figli (e sui nipoti), il Parlamento italiano, nel 2002, ha approvato una legge abrogativa del divieto e quindi consentito a Vittorio Emanuele (junior), a Marina Doria ed Emanuele Filiberto di rientrare in Italia. L’atto porta la firma del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e del Consiglio Silvio Berlusconi. Di fatto, la storia dei Savoia, come Casa da secoli regnante nel nostro Paese, è finita il 10 novembre 2002. Senza più nulla a pretendere.