Di Adriano Marinensi – Le principali pagine della storia del crimine, in Sicilia, potrebbe scriverle, a buon diritto, il carcere dell’Ucciardone, la fortezza borbonica costruita intorno alla metà del XIX secolo e, tra l’altro, testimone oculare degli allegri soggiorni mafiosi durante la seconda metà del ‘900. Per esempio potrebbe raccontare la verità, mai accertata, su ciò che accadde il 9 febbraio1954, quando le guardie carcerarie vennero chiamate per soccorrere un detenuto colpito da improvviso grave malore. Ha appena fatto colazione ed è stato assalito da violenti dolori. Non si tratta di un carcerato qualunque: nei registri del penitenziario è registrato come Pisciotta Gaspare Salvatore, di anni 30. Aspanu per gli amici. E’ il numero due della famigerata associazione per delinquere guidata da Salvatore Giuliano, tristemente attiva nell’isola dalla fine degli anni ‘40. All’inizio Giuliano trova il sostegno dell’EVIS, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia. Presto diventa un eroe senza patria, un fuorilegge manovrato da ambienti del potere siciliano.
Gaspare Pisciotta sapeva vita, morte e miracoli (miracoli, si fa per dire) del gruppo malavitoso, compresi gli innominabili retroscena. Conosceva il nome dei “pupari” che ne avevano guidato le imprese. Tra i crimini peggiori, la strage di Portella della ginestra avvenuta il 1 maggio 1947. Quel giorno, circa 2000 persone, quasi tutti contadini e braccianti, in conflitto con il latifondo, sono riunite nella zona di Piana degli Albanesi, vicino Palermo, per celebrare la festa del lavoro (era appena tornata alla sua data storica, dopo che il fascismo l’aveva spostata al 21 aprile, Natale di Roma). C’era da festeggiare anche il successo delle forze di sinistra all’Assemblea regionale nelle elezioni del 20 aprile di quell’anno. Giuliano e i suoi aprirono il fuoco sulla folla dalle colline sovrastanti. Risultato: 11 morti, dei quali 3 bambini e 27 feriti, 3 deceduti in ospedale nei giorni successivi. Un eccidio vile, rimasto poi nascosto dentro le nebbie dell’omertà mafiosa e delle sciagurate connivenze tra i poteri legali e non. A Portella, hanno eretto un monumento naturale a ricordo del massacro, fatto di grandi blocchi di pietra e un muro a secco lungo 40 metri. Pietre pesanti che fanno da monito nella lotta alla criminalità ed alle deviazioni politiche.
Tre anni dopo, il 5 di luglio 1950, a Montelepre, dentro il cortile di una abitazione c’è il corpo di un uomo crivellato di proiettili. Attorno, armi in pugno, un nugolo di carabinieri. Quello riverso a terra, con un rivolo di sangue che esce dal petto, è Salvatore Giuliano, di anni 28. La versione ufficiale dei fatti, diramata con enfasi lo stesso giorno, afferma che il bandito, ricercato da anni, è stato sorpreso in casa di un certo avv. De Maria e ucciso nel corso di un conflitto a fuoco dalle Forze dell’ordine guidate (i nomi affidati ai posteri) dal Col. Ugo Luca e dal Cap. Antonino Perente. Così sono andate le cose? Macché. C’è la versione Pisciotta. Rivela dopo l’arresto: “Mio cugino Salvatore l’ho ammazzato io; poi abbiamo organizzato il teatrino dello scontro con i Carabinieri.” Roba da non credere. Così come da non credere appare la versione giornalistica del doppio cadavere, quello del cortile e l’altro dell’obitorio. Oppure addirittura che il morto non fosse Giuliano, ma un suo sosia. In sostanza, di sicuro, sicuro, si seppe soltanto ch’era morto.
Mistero per mistero, la procedura usata con Pisciotta, all’Ucciardone, fu la stessa utilizzata con Michele Sindona, il bancarottiere di Patti, un altro custode di tante magagne italiche, compiute insieme ad altri caporioni che intrallazzavano all’epoca nell’alto bordo politico – finanziario (leggi, ad esempio, l’Arcivescovo Paul Marcinkus, Presidente dello IOR, Licio Gelli, Capo della Loggia occulta P2 , il faccendiere Claudio Carboni). Sindona venne soppresso con il cianuro dentro il solito caffè, il 22 marzo 1986, nel penitenziario di Voghera. Non era manco lui uno stinco di santo: divenuto proprietario di una Banca (Privata Italiana), l’aveva ridotta in fallimento, impantanandola in mezzo ad interessi censurabili tra alta finanza, politica, massoneria e criminalità comune. Gli avevano dato l’ergastolo perché riconosciuto mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979), il Commissario liquidatore proprio della B.P.I. Insomma, Michele pari, pari a Gaspare, due pericolosi conoscitori di notizie inconfessabili: del tipo, se parlo io, salta il banco. Allora, meglio farne a meno delle loro rivelazioni. E Roberto Calvi, no? Lo ritrovarono – non si è mai saputo chi ce lo avesse messo – appeso sotto il Ponte dei frati neri del Tamigi (18 giugno 1982) con le tasche colme di pietre e di dollari. Un altro soggettino da pigliare con le molle, il dr. Calvi, Presidente del Banco Ambrosiano in disfacimento per mala gestione, amico di personaggi chiacchierati, persino appartenenti alla famigerata banda della Magliana.
Ma, torniamo all’Ucciardone dove l’ergastolano Aspanu Pisciotta, verso la metà del giorno 9 febbraio 1954, è già bello e morto. Aveva in animo di fare pesanti rivelazioni e quindi sapeva di essere in pericolo. E quando si rese conto di ciò che gli stava capitando. pare abbia gridato al genitore, ch’era in cella con lui per uguale condanna: “Patri, m’ammazzaru!”. Le analisi stabiliranno che nella bevanda della colazione c’erano stati aggiunti oltre 20 grammi di stricnina, del tipo usato per sterminare le colonie di pantecane presenti nel carcere. Un quantitativo sufficiente a schiantare un cavallo. Il comico siciliano Pino Caruso, era solito presentarsi in scena vestito con il costume a righe tipico dei galeotti di una volta, parodiando il motivetto della torpedo blu: “Venga a prendere il caffè da noi stasera. Ucciardone, cella 26”.
Probabilmente chi aveva organizzato l’attentato non poteva sbagliare. Il detenuto era persona divenuta inaffidabile soprattutto dopo il processo, per aver affermato: “Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa, come padre, figlio e spirito santo”. Il procedimento a carico della banda Giuliano, si è tenuto dinnanzi alla Corte d’Assise di Viterbo dal 1950 al 1952, con circa 200 udienze, in un clima di false verità, di mezze ammissioni, di qualche minaccia in codice mafioso. Vennero chiamati in causa da Pisciotta personaggi di spicco del mondo politico siciliano e nazionale, ma senza prove a sostegno delle accuse. Si è chiuso il processo con una “mitragliata” di condanne all’ergastolo per coloro che il mitra l’avevano usato a Portella della ginestra e in tante altre occasioni. Sono rimasti dietro il sipario dell’omertà, gli intrecci di una storia criminale considerata la madre dei grandi misteri poco gloriosi dei quali s’è dotata l’Italia.
P. S.: Dura due ore e un quarto il film “Salvatore Giuliano” del regista Francesco Rosi, uscito nelle sale all’inizio del 1962. La critica lo ha definito un brano di storia italiana che pone al centro il fenomeno del separatismo mafioso, mascherato da volontà politica. Lo stesso Giuliano, scrisse una lettera al Presidente Truman nella quale esprimeva il sogno del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia: “Staccare l’isola dall’Italia ed annetterla agli Stati Uniti.” Al limite della barzelletta!