di Adriano Marinensi – Durante una delle vuote giornate oppresse dalla minaccia epidemica, che reclude gli anziani in casa, nulla avendo di meglio da fare (e pensare) ho riletto, tra le pieghe dell’antichità, ciò che accadde, a Roma, nelle Idi di marzo dell’anno 44 a. C. Quando l’Urbe fu sconvolta dalla notizia di cronaca nera: Hanno ucciso il divo Giulio Cesare. Cercherò di scriverne il racconto con l’aiuto dell’assassinato, dando spazio, qua e là, ad una fattispecie di intervista impossibile.
Al tempo dei fatti, Cesare ha 65 anni, portati mica tanto bene, a causa dell’usura patita nelle innumerevoli battaglie, in mezza Europa, dalle quali ha tratto fama e ricchezze. Genio militare e politico, è fedele interprete dell’espansionismo romano che dispensa nuova civiltà sulla punta della spada. Vive in una villa di tipo berlusconiano e l’antico pari al moderno, ama il gozzoviglio e le belle cortigiane. In ultime nozze, si è unito a Calpurnia Pisone. L’ha “chiacchierato” Svetonio per via di uno strano rapporto giovanile con il Re di Bitinia. Insomma, il “vizietto”.
A parere dello stesso Cesare, è stato Cicerone, in versione malalingua, ad appioppargli l’epiteto di “marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti.” Pare fosse invece un latin lover. Non poche le amanti, compresa Cleopatra, regina d’Egitto: dal loro connubio è nato Cesarione. Ha governato prima con Pompeo e Crasso, nel primo Triunvirato, poi da solo dopo il Rubicone, “il dato è tratto” e la vittoria di Farsalo a danno Pompeo, diventatogli competitore. Il quale, fuggito in Egitto, si ritrova con la testa tagliata per ordine del Faraone che voleva conquistare le grazie di Cesare; invece schifato da tanta crudeltà, proprio il leader maximo (giallorosso) fa erigere, in Senato, la famosa statua gigante di Pompeo. Che, tra l’altro, è suo genero per aver sposato la figlia Giulia.
Da quando è diventato l’ “amministratore unico” della grande Roma, Cesare ha cominciato a montarsi la testa calva quasi quanto un cocomero. Si crede bello come un Apollo e accredita la sua stirpe discendente da Venere. Gli sono cresciuti insieme gli onori e i nemici, un po’ troppi nemici (un lontano postero, tracotante imitatore, conierà il detto “molti nemici, molto onore”, finendo malamente). Cesare non si è mai scomposto di fronte ai repentagli ed ha proseguito lungo la strada, seppure sdrucciolevole, della megalomania. Mal glien’è incolto, perché persino i più prossimi accoliti si sono sfastidiati, al punto da organizzare un letale attentato. A congiurare sono in molti, con in testa Bruto, il suo figlioccio e Cassio, autorevole rampollo di famiglia patrizia. Con loro diversi componenti del Senato che, con Cesare imperante, si è visto ridotto il proprio ruolo. In più, è diventata una Assise divisa in due partiti in permanente zizzania, gli optimates di origine patrizia e i populares, vicini alle esigenze della plebe.
Il mattino di quel 15 di marzo, l’intrigo è pronto. Cesare si è svegliato di pessimo umore a causa di certi spaventi notturni che lo perseguitano, legati, da ultimo, al presagio di un indovino, di nome Spurinna: “La tua vita sarà in pericolo sino alle Idi di marzo”. Pure Calpurnia ha fatto un brutto sogno quella notte ed ora lo prega di non andare in Senato, paventando iatture. Ci sono state anche le oniriche immagini ammonitrici del povero uccellino dilaniato dai rapaci e dei cavalli del Rubicone che piangono. Tutta superstizione, riflette Cesare, e lui, uomo aduso a ben altri repentagli, non può stare appresso al malaugurio. Poi, il presagio dell’aruspice è fasullo in quanto il giorno è sorto e nulla è accaduto. “Sorto, ma non trascorso”, ribadisce il porta sfiga. Comunque, Cesare è Cesare, il potente Cesare e il popolo lo adora. La dimostrazione – sostiene – sta nelle due ali plaudenti che lo accompagnano lungo la “Via Sacra” da casa al Senato. In romanesco moderno: ‘Anvedi che robba! Matteo nostro (il Minore) gli avrebbe detto: Stai sereno, Cesare.
Qualcuno attraversa il muro di folla e gli consegna un papiro che lo informa della congiura in atto. Sarà la solita supplica – pensa – e decide di leggerla più tardi. I Senatori sono riuniti da un bel pezzo e non è carino farli aspettare ancora. Quindi, affretta il passo romano ed entra in aula con la solita fierezza di sempre, la toga tinta di porpora e ricamata in oro. Applausi! E i complottisti? Sono li tutti presenti e decisi a compiere il cesaricidio. Uno di lori si avvicina e gli chiede qualcosa, però inascoltato. E’ il segnale. Dalle bianche tuniche senatoriali escono i coltelli e colpiscono inesorabilmente: Una, due, tre, fino a ventitre volte. Ed il grand’uomo, seppur tetragono ai colpi di ventura, come corpo morto cade. La tragedia è compiuta e cala il sipario sopra un tratto di storia che ha visto Roma diventare ancora più potente, ma ha subìto l’attenuazione delle libertà repubblicane. Adesso il tiranno giace inerte sotto il simulacro di Pompeo e lascia amici e nemici in lotta tra loro.
Il sipario lo riapre William Shakespeare, alcuni secoli dopo, dando voce alla famosa orazione funebre di Marco Antonio, che trasforma il suo dire in un elogio del morto ammazzato. “Cittadini, io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso e Bruto è uomo d’onore. Però tre volte io ho offerto a Cesare la corona di Re e lui tre volte l’ha rifiutata. Tuttavia Bruto afferma che era ambizioso e Bruto è uomo d’onore. S’io venissi qui a scuotere i vostri cuori … farei torto a Bruto e Cassio, uomini d’onore.” Il Marco Antonio di Shakespeare si dilunga nel suo subdolo arringare ed alla fine conclude, alludendo alle “ferite del dolce Cesare, povere bocche mute”. Però “così eloquenti da spingere fin le pietre di Roma a rivoltarsi”. Ovviamemte, contro l’empietà degli assassini.
La Roma del dopo Cesare infatti entra nel caos. Bruto e Cassio sono costretti alla fuga. “Ci rivedremo a Filippi” è la minaccia di Marco Antonio ed a Filippi, in Tessaglia, i due vengono sconfitti e si uccidono. Ricevono pure la “damnatio memoriae” di Dante, che li ha posti nel Cocito, il lago ghiacciato sul fondo dell’Inferno, tra i traditori. Scrive il sommo Poeta: “Quell’anima lassù che ha maggior pena è Giuda Scariotto. De li altri due c’hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto e l’altro è Cassio che par sì membruto”.
Venne quindi il tempo di Ottaviano Augusto, il primo Imperatore, quello della splendida statua di Prima Porta, conservata nei Musei Vaticani. A Roma, dopo le smargiassate di Cesare, c’era una gran voglia di bandire la violenza. Ed ebbe – dal 27 a. C. al 17 d. C. – la cosiddetta “pax Augustea”. Ottaviano abbellì la città, tutelò gli intellettuali e la cultura, restituì le prerogative al Senato, avviò importanti riforme. Alla sua morte, per tante opere realizzate, venne divinizzato. Seppure più d’uno, tra i contemporanei, volle offuscarne la fama, definendolo autocrate nella gestione del potere. Come dire, da angelo a demone. Per la storia, un indebito giudizio.