di Adriano Marinensi – Il 20 gennaio del 1964 è un lunedì. La segretaria di una azienda con sede in Roma, dalle parti di Via Veneto, si sta recando al lavoro. Da un paio di giorni, il suo principale non risponde al telefono. Lui è uomo d’affari, giovane di bell’aspetto, molto ricco, con fama da tombeur des femmes e diverse donne che gli ronzano attorno. Si chiama Farouk Chourbagi, è egiziano, ha 27 anni. L’impiegata entra e trova la solita stanza a forma di ufficio; però in più, c’è un morto a forma di morto, ammazzato con 5 rivoltellate e il volto sfregiato dal vetriolo.
La ragazza lancia un urlo da far accapponare la pelle: quel corpo, incastrato tra la scrivania e il muro, è di Farouk. Il decesso risale di sicuro al sabato precedente. Trattandosi di un dongiovanni, la prima ipotesi investigativa si orienta verso il delitto passionale ad opera di una donna, magari sedotta e abbandonata. Un classico. Quindi, cherchez la dame. Però, le possibili pistolere sono molte. Una imbeccata utile la fornisce l’anzidetta segretaria del cadavere: qualche giorno prima ha ascoltato una telefonata, da parte di una signora, che aveva lasciato in angoscia il povero Farouk. La voce non era affatto misteriosa. Apparteneva a Gabrielle Bebawi, detta Claire, egiziana pure lei, avvenente moglie, alquanto birichina, del facoltoso industriale Youssef Bebawi e madre di tre figli.
La situazione familiare non le ha impedito di intrecciare, da tre anni, una relazione con il defunto, dalla medesima considerato, per dirla come dice Niccolò Tommaseo “stromento d’illecito piacere o di lucro turpe”. E tale “illecito piacere” è un fatto notorio, persino al marito. Allora: dove si trovava lei, signora Claire, nel tardo pomeriggio di sabato 18 gennaio? Nel tardo pomeriggio, perché sino alle 17 di quel giorno Farouk era vivo, come asserisce il portiere della sua abitazione che lo ha visto uscire a quell’ora. Nel pomeriggio del sabato, guarda caso, la signora si trovava insieme al marito, in albergo, entrambi appena arrivati a Roma, provenienti dalla Svizzera e ripartiti intorno alle 19,30 per Napoli. Un lasso di tempo breve, ma sufficiente, a parere degli inquirenti, per prendere a revolverate l’egiziano e oltraggiarlo con l’acido. La polizia ora ha una traccia e la segue. I due negano ogni addebito, come è ovvio che sia. E’ plausibile che una amante trascurata ed offesa abbia meditato la vendetta e quindi Claire può essere considerata parte in tragedia. In più, dalla Svizzera, arriva la testimonianza del commesso di un negozio che afferma di aver venduto alla signora un flacone di vetriolo. Questa informazione messa insieme al possibile movente, alla telefonata minacciosa, alla tresca adulterina paiono indizi sufficienti di colpevolezza.
La svolta clamorosa arriva quasi subito con l’interrogatorio di Youssef. Fa mettere a verbale: “Sabato, nel pomeriggio siamo usciti dall’albergo ed ho accompagnato mia moglie sino al portone del palazzo ove si trova l’ufficio di Farouk. Doveva avere un incontro risolutivo con l’uomo. Quando è tornata, mi ha detto “gli ho sparato”. Ho intravisto la pistola e il flacone vuoto dell’acido nella borsetta”. Dunque, la classica nemesi della morosa negletta. A tale dichiarazione accusatoria, Claire ne contrappone un’altra: “E’ vero che sono salita in quell’ufficio. Mentre stavo discutendo con Farouk, è arrivato mio marito. Aveva in pugno la pistola. Dopo una breve colluttazione ha sparato e ucciso, gettando il vetriolo in faccia al morto”. E si, la classica vendetta del marito cornificato. Il garbuglio è servito. Il rimpallo delle accuse riporta le indagini in alto mare. Pur se un dato reale è palese: uno dei due ha ammazzato Farouk. Chi dei due è l’assassino? Non si sa. Pur se, allo stato degli atti, è possibile sostenere l’accusa di omicidio a carico di entrambi.
Allora, la parola alla giustizia. Siamo al 1966: Signori, in piedi entra la Corte. E con la Corte entrano gli imputati, un manipolo di Carabinieri, uno stuolo di Avvocati e una marea di pubblico, accalcato dietro le transenne. Vi resterà per l’intera durata del dibattimento. Per la difesa, due maestri dell’arringa, in particolare: Giovanni Leone, patrocinatore di Claire (nel 1971, diventerà Presidente della Repubblica) e Giuliano Vassalli, legale di Youssef (nel 1987, sarà Ministro della Giustizia). Con loro, un altro penalista di grido, Giuseppe Sotgiu, fratello di Dante Sotgiu che è stato Sindaco di Terni (1970 – 1978). Inizia la battaglia legale a colpi di fioretto.
Gli accusati, in aula, continuano nella loro condotta ambigua, tra lacrime, svenimenti (di Claire), feroci alterchi verbali. La matassa stenta a dipanarsi. L’unico punto fermo resta il cadavere insieme alle revolverate che lo hanno causato. Si va avanti per 140 udienze, per ascoltare oltre 100 testimoni e le lectio magistrali della pubblica accusa e della difesa. Alquanto drammatica la deposizione di Patrizia de Blanc, molto nota allora come valletta del Musichiere, la notissima trasmissione condotta da Mario Riva e presunta fidanzata di Farouk. Riassumendo, i Giurati si devono districare fra tre verità presentate a confronto: quella di Youssef (“E’ stata lei ad uccidere”), l’altra di Claire (“E’ lui l’assassino”), la terza del Pubblico Ministero (“Sono entrambi colpevoli di omicidio, perché autori di un unico disegno criminoso”). Pare la trama intrigante di un romanzo giallo.
Al termine del processo di primo grado, la Corte, dopo 30 ore di camera di Consiglio, assolve entrambi gli imputati, ordinandone la scarcerazione, “qualora non detenuti per altra causa”. Trenta ore onde trovare il “sapone” giusto e lavarsene le mani. Il sapone giusto è l’art. 479, comma terzo, del Codice di Procedura penale, all’epoca vigente. Stabiliva: “Se non risultano sufficienti prove per condannare, il Giudice pronuncia sentenza di assoluzione per insufficienza di prove”. Siccome la condanna penale è personale e non si era raggiunta la certezza assoluta su chi dei due avesse sparato, in dubium … a quel che segue.
Quel che segue è evidente: il giochino dello scaricabarile ha funzionato. Però, solo in primo grado, in quanto, la Corte d’Appello, nel 1968, fu di contrario avviso e condannò entrambi alla pena di anni 22 di reclusione; sentenza confermata, nel 1974, dalla Cassazione. Intanto però, la coppia diabolica era scoppiata e lontana: Claire in Egitto e Youssef in Svizzera, entrambi discretamente sistemati. Poiché, tra l’Italia e quei Paesi non esistevano trattati di estradizione, la altisonante vicenda che aveva impegnato le Istituzioni giudiziarie, gli organi nazionali dell’informazione e appassionato l’opinione pubblica, finì – come si suol dire – in un cul de sac. Con un morto, due assassini condannati, in via definitiva, per quel feroce omicidio e nessuno ad espiare il fio della colpa. Insomma, una giustizia un po’ così!