Di Adriano Marinensi – Per avviare questo succinto discorso intorno ad una serie di eventi storici che hanno interessato il nostro Paese (e l’Umbria), durante la prima metà del XX secolo, mi sono avvalso di alcune considerazioni tratte dal libro di Franco Ferrarotti, intitolato “Futurismo come prefascismo”. Ci sono, all’inizio, poche frasi capaci di sintetizzare una serie di avvenimenti che hanno causato l’involuzione politica concretizzatasi nella dittatura.
Scrive Ferrarotti: “Prima del fascismo ci furono il futurismo e il mussolinismo. Il fascismo venne dopo con il foraggiamento dei grandi interessi consolidati (terrieri e industriali), il connivente favore di Casa Savoia, la complicità degli intellettuali (il giuramento di fedeltà degli Accademici)”. Poi il Concordato con la Chiesa cattolica nel 1929, sino ad arrivare alle Leggi razziali del 1938. Un percorso di consolidamento del regime che avvolse il Paese su se stesso, come il baco da seta nel bozzolo. Chiuso nel pensiero unico, costruito attraverso l’esaltazione della forza prevalente su ogni ragione. Soggiunge più avanti Ferrarotti: “Gabriele D’Annunzio e Tommaso Marinetti hanno covato abbastanza l’uovo fascista di Benito Mussolini”.
Par di capire, soprattutto Marinetti e il Futurismo, “il movimento letterario che destò maggior scalpore al principio del ‘900. Guardava al futuro e criticava duramente la cultura del passato, i suoi musei, le sue biblioteche, esaltava la macchina, la velocità, il progresso industriale”. Era dunque quasi ovvia la contiguità con l’altro avanguardismo di tipo fascista e con il mito del mussolinismo profetico e dissacrante che portò alla Marcia su Roma. Consentita dall’avallo del pavido Savoia. Aprendo le porte del Governo al duce, pensò forse di poterne controllare la tracotanza e invece ne venne travolto. Sino alla disfatta.
Fecero la loro parte i patriottismi delusi del reducismo, confusi, all’indomani della 1^ guerra mondiale, con le dottrine anarchiche e bolsceviche, le spinte rivendicative provenienti dalle fabbriche e dalle campagne, il concetto strangolatore, fondato sull’ordine e la disciplina; questo ed altro, finì per creare una miscela sociale esplosiva che realizzò il disprezzo fascista per la democrazia. Ci misero del loro i cosiddetti poteri forti del mondo economico, preoccupati dalle agitazioni sindacali nel principali settori produttivi. “Tra il 1919 e il 1922 – sostiene Ferrarotti – si passò dal biennio rosso al biennio nero”. E, dopo la Marcia su Roma, il movimento di Mussolini, servendosi del suo apparato paramilitare, dette inizio alla fascistizzazione del Paese.
Anche l’Umbria, nella pagina di storia scritta durante l’infausto 1922, ebbe la sua parte. Perugia – nei giorni immediatamente precedenti la Marcia – divenne sede di comando strategico delle camicie nere. E Foligno centro di raduno degli squadristi. L’Hotel Brufani fu una delle sedi da dove il “Quadrunvirato” (lo componevano i fedelissimi del duce, Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi) diresse le operazioni. E la città, messa in mezzo al violento conflitto di potere, tra fascisti e forze regie, visse momenti che fecero temere lo scontro armato.
Con il Regio decreto del 1931, il regime compì un altro attentato alla libertà: venne introdotta per legge la “clausola di fedeltà al fascismo”, attraverso il formale giuramento al quale erano obbligati i docenti universitari. Questa la formula introduttiva: “Giuro di essere fedele al Re e al Regime fascista”. E chi non giurava perdeva la cattedra. Furono soltanto una dozzina i “sovversivi”. Molti pensarono di usare il giuramento per mantenere il posto e poter svolgere un’opera utile alla causa dell’antifascismo. I cattolici giurarono “con riserva interiore”. L’Osservatore romano ricorse ad un escamotage: sostenne che per “Regime fascista” doveva intendersi “Governo dello Stato”. Qualcuno rimase in cattedra (Luigi Einaudi) per evitare che l’insegnamento universitario cadesse “in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti”.
Albert Einstein scrisse una lettera al giurista italiano Alfredo Rocco, autore del Codice che porta il suo nome. Diceva: “La mia preghiera è che Lei voglia consigliare il signor Mussolini di risparmiare questa umiliazione al fior fiore dell’intelligenza italiana. Lo sviluppo intellettuale europeo – aggiunse – si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento”. Il dittatore non lo stette minimamente a sentire. Le teorie fasciste ormai andavano verso tutt’altra direzione e la parola libertà era stata abrogata. Secondo il Ministro e filosofo Giovanni Gentile, “il fascismo è come una religione ed essa non si contenta di rincantucciarsi in un angolo della mente, ma investe tutta l’anima, tutta la vita e deve perciò governare tutto il pensiero”. Eppure la storia ci dice che egli, insieme a Benedetto Croce, fu “uno dei principali esponenti del neoidealismo filosofico” e perciò esplicito esempio di intellettuale positivo, “traviato” dal regime. Con un atto di stile squadrista, lo uccisero, a Firenze, nel 1944, i partigiani rossi del GAP, ai quali andò la ferma riprovazione del Comitato toscano di Liberazione Nazionale.
La vetta dell’infamia, la dittatura – prima di trascinare gli italiani del gorgo della guerra – la raggiunse con l’emanazione delle leggi razziali. Si intendono con questa definizione una serie di provvedimenti (leggi, ordinanze, circolari) entrati in vigore nel 1938, in Italia. Le chiamarono “leggi per la difesa dalle contaminazioni ebraiche”. Le annunciò, da Trieste e dal solito balcone gremito di uomini neri e pettoruti, il sommo duce; furono abolite a gennaio del 1944. Ebbero un antenato a firma di 10 eminenti scienziati, contaminati, loro si, dal culto del capo, e prese il nome di “Manifesto della razza”. Quindi sull’argomento intervenne il Gran Consiglio del fascismo e il disonore fu tradotto in atti di governo sottoscritti da Mussolini e promulgati con il sigillo del Re.
Il regime applicò la normativa razzista a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, esonerando insegnati e studenti; poi estese i provvedimenti a tutti gli uffici pubblici ed alle aziende statali. L’ostracismo fece perdere il lavoro ad un gran numero di famiglie e costrinse scienziati di fama a lasciare l’Italia. Molti decisero di restare, ma dovettero abbandonare gli studi. Pio XI, Papa Ratti, ne chiamò alcuni ad insegnare in Vaticano ed espresse la sua ferma e pubblica riprovazione. Gli ebrei e le loro famiglie, emarginati come gli untori ai tempi della peste, pagarono un prezzo molto alto, offesi nei diritti e nella dignità. Alla fine, per molti di loro, arrivarono i tempi delle deportazioni nei campi di sterminio. L’esempio emblematico e orribile ha un luogo e una data: il “sabato nero” del Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, quando oltre mille persone, compresi più di 200 bambini, partirono per Auschwitz sopra 18 carri ferroviari. Tornarono in 16, 15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino.