Di Adriano Marinensi – Spesso le imprese dei briganti si alimentano da sole nell’immaginario collettivo e diventano leggenda, pur non avendo nulla di epico. A volte la narrativa tenta analoga trattazione per briganti di diversa tacca e mischia violenza di differente impatto, mentre le condanne mostrano notevoli differenze tra quelle penali e quelle della storia. E’ quanto accaduto per due personaggi del secolo passato che ebbero un cognome quasi simile e compirono entrambi azioni orribili. Del peggiore (Benito) ha parlato il mondo intero, del meno peggio (Giuseppe) voglio far cenno qui di seguito.
Il meno peggio fa di cognome Musolino, è un taglialegna calabrese, nato alle pendici dell’Aspromonte, nel 1876. Diventa brigante per fortuita occasione. Nessuna difesa la sua dei deboli contro i forti, degli oppressi contro gli oppressori, come potrebbero far pensare le condizioni d’epoca, quasi feudali, in talune zone del sud d’Italia. Nessun poetico Ernani, nessun romantico don Giovanni d’Aragona che voglia sollevare il popolo contro il Re di Spagna e nessuna fanciulla Elvira da difendere. Neppure un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Piuttosto un serial killer, Musolino, al quale una personale sete di rivalsa fa commettere gravissimi reati. In “Fuochi di Bivacco”, il grande narratore Alfredo Oriani, nel 1902, scrive: “Figlio di un oste, non aveva nelle vene che un sangue di contadino. Lo condannarono e forse tale condanna, in un animo debole … senza selvaggia passione di ribelle, può spiegare l’improvvisa e non più mutata mania di vendetta.” Che poi si trasforma in faida soverchia e crudele. Non ha una sua banda Musolino, come l’ebbe, più tardi, Salvatore Giuliano. E’ il solitario uccel di bosco dell’Aspromonte, che agisce con il sostegno logistico e qualche copertura di troppo da parte dei contadini, dei caprai, dei montanari. Forse la gente vede in lui il vendicatore delle ingiustizie delle quali soffre la Calabria. Per fare breccia nell’omertà, più tardi, lo Stato gli metterà in testa, vanamente, una taglia favolosa: 5.000 lire.
La vicenda di Musolino ha inizio nell’osteria di Santo Stefano in Aspromonte, borgo – di nuovo Oriani – “montano e boscoso, la gente rozza e ingenua … il Governo, pari ai tempi del Borbone, odiato come uno straniero”. Siamo in terre ove permangono valori primitivi, uomini per lo più ignari delle regole, il potere legale assente dalla vita quotidiana ancorata a metodi arcaici di organizzazione sociale. Nell’osteria stanno giocando a carte, da un lato Musolino e l’amico fidato, dall’altro due fratelli, in palio una partita di nocciole. All’improvviso, si accende un duello da cavalleria rusticana tra i quattro che forse hanno alzato troppo il gomito. Nulla di grave e rilevante. Il giorno dopo però, dentro una stalla, i Carabinieri trovano, gravemente ferito, uno dei partecipanti alla baruffa ed il cappello di Musolino. Vanno per arrestarlo, ma lui si è già dato alla macchia. E vi resta per alcuni mesi, fintanto che viene sorpreso e tradotto in vincoli. Poi in Tribunale per quel presunto ferimento. Le testimonianze – secondo l’imputato, palesemente false e bugiarde – fanno da sostegno per avvalorare l’accusa ed arrivare alla (esagerata) pena di 21 anni di reclusione. Colmo di rancore scrive una poesia nel suo vernacolo quasi incomprensibile che, in italiano, suona così: “Ebbero allegrezza quel giorno, quando i giurati condannato m’hanno, ma se per caso al paese torno, gli occhi che risero piangeranno.”
Una chiara dichiarazione di guerra ai traditori. Che ha inizio dal giorno dopo la rocambolesca evasione dal carcere. Nei primi 8 mesi di latitanza, compie 5 omicidi e 4 tentati omicidi. Viene organizzata una gigantesca caccia all’uomo su per le impervie balze del quasi inesplorato monte calabrese. Il fuggiasco non si trova e il caso diventa oggetto di cronaca nazionale. Persino l’inglese Times ed il francese Le Figaro si interessano dell’intricante argomento: ci sono addirittura un paio di battaglioni che inseguono un fuorilegge e non riescono a stanarlo. Però, lo spiegamento di forze costringe Giuseppe Musolino ad allontanarsi dalla suo habitat naturale. Si sposta verso le Marche. E’ ottobre 1901: sono trascorsi quasi tre anni dalla evasione e lui si trova nelle campagne attorno ad Acqualagna, nei paraggi di Urbino.
Due Carabinieri si muovono in perlustrazione: loro non cercano lui e non sanno chi sia quel tizio che si è messo a scappare appena li ha visti. Lo inseguono in mezzo ai filari di una vigna, finché inciampa banalmente in un fil di ferro e cade. Lo bloccano e soltanto al successivo controllo di identità, scoprono che hanno fatto il colpo del secolo. I loro nomi sono passati alla storia e, per la storia vanno citati: il pugliese Antonio la Serra e l’umbro (di Baschi) Amerigo Feliziani; il “Comandante la Stazione” – lo scrivo, tal quale nell’Arma si scrive – è il brigadiere Mattei Antonio, padre del futuro Presidente dell’ENI, Enrico Mattei.
Dirà Musolino: “Chiddu che non potti n’esercitu, potti nu filu”. Due battaglioni lo hanno cercato invano e la ventura ha sorriso a due soli militari, che mettono fine alla sua lunga e sanguinosa contumacia. La stampa si mette persino a fare il conto delle spese sostenute dallo Stato per la sua cattura: non meno di un milione di lire, cioè una somma immensa per quel tempo. Dopo Acqualagna, Giovanni Pascoli scrive una poesia, intitolata Musolino, che comincia così: ”Nel monastero, ove coi morti frati, dormono gravi salmodie sepolte, curvo passò, tra uno squillar d’armati. Intorno ai lombi le catene avvolte, come serpi di ferro.” Chi ha studiato il caso Musolino (Enzo Magri) è stato meno “poetico” e lo ha definito “un paranoide sbandato e una vittima del disadattamento”. Forse figlio della cultura sociale imbottita di analfabetismo.
Il secondo processo a Musolino comincia nell’aprile 1902, a Lucca. I testimoni escussi sono quasi tutti delle sue parti. E quasi tutti interpreti assoluti del vernacolo locale. La Corte deve quindi dotarsi di un “interprete” per capirci qualcosa. Per le cronache d’epoca, è un personaggio singolare: ha tradotto in calabrese il Paradiso della Divina Commedia. Giuseppe Musolino, imputato di 12 omicidi e 3 tentati omicidi, viene condannato all’ergastolo. Rimane in carcere sino alla morte, avvenuta nel 1956, quando aveva 80 anni. Era entrato di diritto, con la sua celebrità triste, nell’ ”albo nero” del banditismo italiano ed ha appassionato la pubblica opinione e la pubblica coscienza. Quindi soggetto ottimo per il solito film alla lacrima. Lo ha girato il regista Mario Camerini, con attori di prestigio: Amedeo Nazzari, Silvana Mangano, Umberto Spadaro, Arnoldo Foà. E’ stato realizzato nel 1950, perché, sino ad una decina di anni prima, non s’era potuto, per causa di quella (disdicevole) quasi omonimia della quale ho scritto all’inizio: gli italiani, poco acculturati, potevano scambiare il brigante Musolino con il masnadiere Mussolini.