Di Adriano Marinensi – L’ordine morale è fattore essenziale di ogni Stato fondato su giustizia ed uguaglianza, per una convivenza di alto profilo. Anzi è preminente sulla organizzazione della democrazia pienamente realizzata. La rivendicazione dei diritti senza la piena coscienza dei propri doveri, alla lunga, diventa anche causa di disimpegno e provoca un vuoto di valori. Il disordine morale va individuato, non soltanto negli atti contrari alla legge, ma anche in quelli in palese contrasto con l’interesse collettivo. In questo ambito rientrano le operazioni politiche che hanno per effetto la disgregazione della società, attraverso anacronistiche richieste all’insegna de “il reddito chi lo produce ha diritto di usufruirne”.
Si realizza così un modello di società dove prevale l’affannosa ricerca del benessere individuale e corporativo che prescinde dal senso umano della solidarietà e del mutuo soccorso. Disse Aldo Moro: “Se alla stagione dei diritti non seguirà quella dei doveri, il Paese non si salverà”. Tante sono oggi le leggi italiane, emanate negli anni, dove si parla di tutela dei diritti; pochi sono i richiami ai doveri che ciascun cittadino deve avere verso gli altri, doveri sui quali si incardina un efficiente e non conflittuale sistema, fatto di responsabilità politiche (il dovere del voto) ed etiche. Doveri non solo come obblighi legali, ma scientemente considerati impegni e servizi alla collettività.
Diventa quindi un discorso di “moralità civile”, di trasparenza dei comportamenti e della loro subordinazione all’interesse primario nazionale. Altrimenti vincono gli egoismi e – agli estremi – la disonestà diventa costume. Così alcuni dei capisaldi – la scuola, la famiglia – perdono la loro funzione formativa, offuscata dai cattivi esempi tratti dalla realtà quotidiana. Un danno palese per i giovani, smarriti nel labirinto dei falsi obiettivi e della droga. Qui non si tratta di contrastare il permissivismo o rincorrere vecchie teorie predicanti e benpensanti, quanto invece riequilibrare i percorsi che non portano da nessuna parte e riducono la qualità della vita. Sugli itinerari distorti, si incontrano gli scandali, la corruzione, il malaffare, i titoli di studio comprati senza merito ed altri simili “inganni”. L’irrinunciabile valore della libertà finisce per sconfinare nell’arbitrio e la società va verso l’involuzione. Al punto che il riferimento all’unità nazionale viene ridotto ad un risibile appello ai liberi e forti.
Non siamo riusciti a sostituire ai vecchi canoni, nuovi “presidi” civili ispirati alla concezione di uno Stato che trovi sostegno nella rettitudine delle coscienze. In modo che il vivere moderno riporti al centro l’ “uomo sociale” e l’esistenza non somigli ad una avventura perennemente combattuta sulle barricate. A questo conduce invece la protesta qualunquista usata sempre e solo per sparigliare. Così si finisce per trasformare un popolo di governo in un popolo di opposizione, incapace di costruire progresso e speranza. E si dà spazio ai cosiddetti poteri occulti che coltivano soltanto rendite e privilegi di categoria, in una visione gattopardesca dell’innovazione e della modernità.
Spetta alla politica dare contenuti alla democrazia, con la nobiltà e l’utilità dell’azione. La politica che sa offrire immagini autorevoli, che promuove la concordia, seppure preservando il libero confronto delle idee, che riesce ad eliminare le situazioni di crisi, le ingiustizie, le sofferenze economiche, l’emarginazione. Non con enunciazioni che mirano a facili consensi. C’è necessità di accrescere la produttività di governo, ad ogni livello, eliminando intralci e ritardi di natura burocratica. Oggi anche il timore di incorrere in sanzioni penali, sta facendo da freno alla creatività amministrativa degli Enti locali. Le Regioni, salutate al loro nascere da ampi consensi, hanno smarrito la carica riformista. Qualcuna addirittura si è attivata per rinverdire potestà di sapore borbonico. L’esempio, impossibile da nascondere, è nel “lombardo – veneto”, una entità territoriale che, attraverso iniziative disgreganti, rivendica autonomie inconcepibili in una visione avanzata del regionalismo e nell’attuale processo di globalizzazione.
C’è chi tifa per la “grande Europa”, per le coalizioni di Stati, per il superamento delle visioni patriottarde e chi, al contrario, per le piccole, meschine “repubbliche”, votate alle esigenze di bottega. Ad alimentare il populismo destrorso e la fiera delle illusioni, dopo i referendum, è già cominciato l’assalto alla diligenza, quasi fosse l’albero della cuccagna. Certo è che, quando chiami il popolo al voto, poi devi starlo a sentire. Però, tenendo conto delle norme costituzionali e nel rispetto delle procedure vigenti. Di Regioni a statuto speciale, i Padri costituenti ne hanno indicate cinque: Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia. Per ognuna c’era una motivazione. Anche gli Statuti speciali sono stati adottati dal Parlamento nazionale con altrettante leggi costituzionali del 1948 (4) e 1963 (1). Un procedimento non semplice che, in questo momento, diverrebbe politicamente ancora più complesso. D’altro canto, l’autonomia concessa alle cinque sopraelencate non si è tradotta in una esperienza esaltante.
L’estensione indiscriminata sarebbe una forzatura palese verso un federalismo secessionista che è il vero obiettivo dei “referendari” lombardo – veneti: la conquista di maggior potere decisionale e il mantenimento, entro i confini regionali, del cosiddetto residuo fiscale. Un postulato in contrasto con l’art. 2 della Carta che sancisce: “La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Anche così si intende garantire “i diritti inviolabili dell’uomo” e quindi di tutti i cittadini, a prescindere dalle pretese “specialità” delle Regioni nelle quali vivono. Dalle esagitate espressioni di trionfo del dopo voto (in Lombardia, alle urne soltanto il 38% degli aventi diritto), si è avuta l’impressione che in molti siano andati in confusione istituzionale.
Va aggiunto che la situazione contingente impone una “servitù contabile” al bilancio dello Stato ed a quelli regionali, con obblighi di massimo contenimento della spesa pubblica: di sicuro, la rincorsa generalizzata a maggiori spazi di autonomia e disponibilità di risorse finanziarie, rischia di ricacciare il debito fuori controllo. Sono quelli sin qui esposti alcuni dei motivi che dovrebbero indurre ad usare il senno della politica coraggiosa per contrastare logiche di retroguardia. La politica coraggiosa che scruta lontano da posizioni culturalmente elevate, le sole capaci di essere motore di avanzamento e di futuro. L’altro è decadente pensiero da basso impero.