di Adriano Marinensi – Il periodo della civiltà romana, ch’è possibile datare dalla fondazione dell’Urbe nel 753 a. C. (Romolo, Remo, Rea Silvia e la lupa), proseguì attraverso la fase dei trionfi imperiali, dal 27 a. C. (Ottaviano Augusto), arrivando al 476 d. C. nel mentre il “barbaro” Odoacre depose Romolo Augustolo. Poi, fu il Medio Evo, sino al 1492, quando Cristoforo Colombo scoprì l’America. La cosiddetta Età di mezzo venne caratterizzata da anni violenti per tanta gente indifesa e le grandi contese armate produssero crisi di civiltà.
La paura incombente spinse tanti uomini a cercare la protezione celeste. Ritrovare sicurezza e speranza nella solitudine della natura remota fu il segno dei tempi. Eccoli allora gli anacoreti salire sui colli dell’Umbria e fondare eremi primitivi che, da rifugi soltanto, presto divennero cenobi di fede. Attorno a questi luoghi, andarono a vivere in molti che i soprusi li avevano subiti. Divennero costoro legnaioli, contadini, rustici artigiani che, prestando la loro opera ai monaci, favorirono la nascita di piccole comunità autonome.
Anche sulle remote sponde del Nahar – il vecchio fiume Nera, sacro alle popolazioni umbre – fiorirono aggregazioni religiose e sociali. La leggenda narra del siriano Mauro, poi Santo, effigiato nel rosone dell’Abbazia di Castel S. Felice, il quale invocò il soccorso divino per affrontare il terribile drago nascosto tra le rocce su per gli anfratti della Valnerina. E lo uccise. Ma, oltre a tale narrazione fantastica, gli studiosi riferiscono di 300 monaci, perseguitati ad Antiochia, approdati in Valnerina e in Valle Castoriana, quest’ultima riferibile geograficamente al territorio circostante l’Abbazia di S. Eutizio.
Dunque, l’eremitaggio non fu una pratica urbana. Al contrario, predilesse la natura nascosta ed una cultura vicina al messaggio del cristianesimo. Sotto la spinta delle irruzioni gotiche e longobarde, la gente – come si usa dire – si dette alla macchia. Intorno al 600 d. C., S. Gregorio Magno scrisse della città di Roma: “E’ spopolata e vi regna violenza, disperazione, tristezza; non rimangono che rocche demolite e case saccheggiate.” Anche alcune zone dell’Umbria, percorse dai barbari, erano così.
La condizione di precarietà favorì la ricerca di una vita pacifica e mistica, attratta dal carisma degli asceti che demolirono i culti pagani. Ad alimentare il fenomeno, pure il fascino aspro del paesaggio umbro e le guarentigie offerte dai suoi territori ricchi di boschi, di sorgenti, di terreni da destinare alle coltivazioni. Poi, la presenza di rocce calcaree, facili da scavare per realizzare romitori; successivamente diventati Conventi, Monasteri, Abbazie. Questo periodo storico fa parte integrante del patrimonio culturale della nostra regione ed è testimone di un profondo fervore mistico, che trova riscontro nell’arte sacra e nelle architetture di una civiltà tornata quasi all’antico. Il monachesimo “rupestre” ha lasciato segni distintivi pressoché indelebili e di incidenza non marginale nel costume di molte comunità dell’Umbria.
L’anteriore è questo, il meno antecedente quel che segue. Chissà perché, nell’ozio uggioso di un pomeriggio vuoto, mi è saltato in mente di quando, a scuola, quasi la metà del secolo scorso, facevamo rimembranza delle opere letterarie nate dall’arte dei nostri eccelsi poeti. Quindi la storia della letteratura e quella delle parole (cotesto meglio di codesto, perché derivato da eccum tibi istum), per diventare padroni della lingua e dei segreti della corretta scrittura. Uno studiare, utile per la vita, del quale oggi, travolti dallo tsunami tecnologico, si sono affievoliti i contorni.
Alla guida c’era la Divina Commedia e poi Manzoni, Leopardi, Foscolo, Pascoli, Carducci. Proprio a Giosuè Carducci è andato il mio pensiero, forse per i suoi legami con l’Umbria, espressi, in particolare, nelle liriche dedicate Alle Fonti del Clitunno (Ancor dal monte che di foschi ondeggia frassini al vento mormoranti … o Clitunno, a te le greggi, a te l’umbro fanciullo la riluttante pecora ne l’onda immerge) ed alla Basilica di S. Maria degli Angeli (Frate Francesco, quanto d’aere abbraccia questa cupola bella del Vignola, dove incrociando all’agonia le braccia, nudo giacesti sulla terra sola!).
Ma, il Carducci, che sta ancora ben saldo nei miei ricordi didattici, è quello mandato a memoria. Il Carducci della tristezza, immortale nelle due struggenti poesie dedicate al figlio Dante. Figlio nato dal matrimonio con Elvira Menicucci, insieme agli altri tre: Beatrice, Laura e Libertà (la Titti immortalata in Davanti S. Guido nell’ onirico dialogo con i cipressi di Bolgheri). Dante, il figlio maschio che aveva appena tre anni quando morì, lasciando un baratro nell’animo del poeta. Sentimento d’angoscia che si ritrova tutto in Funere mersit acerbo (1870) e Pianto antico (1871).
Il titolo della prima ode è tratto da un verso del VI libro dell’Eneide che piange i bimbi morti in tenera età: abstulit atra dies et funere mersit acerbo, cioè il nero giorno li portò via per travolgerli in una morte prematura. Carducci si rivolge al fratello – Dante si chiamava anche lui ed era morto suicida – e gli chiede: “O tu che dormi là su la fiorita collina tosca e ti sta il padre a canto, non hai tra l’erbe del sepolcro udita pur ora una gentil voce di pianto? E’ il fanciulletto mio che a la romita tua porta batte … giocava per le pinte aiole e arriso pur di vision leggiadre, l’ombra lo avvolse ed a le fredde e sole vostre rive lo spinse. Oh, giù nell’adre sedi accoglilo tu, che al dolce sole ei volge il capo ed a chiamar la madre”.
La ferita per il lutto immaturo fu talmente profonda che, un anno dopo, Carducci sentì l’umano sentimento di ricordare ancora suo figlio con “Pianto antico”. Parla il padre e dice al piccolo Dante, quasi l’ascoltasse dall’oltretomba: “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno dai bei vermigli fior, nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora e giugno lo ristora di luce e di calor. Tu fior della mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior, sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra, né il sol più ti rallegra, né ti risveglia amor.”
Ho sempre pensato che, in questi versi accorati, l’alta vena poetica di Carducci abbia trovato la simbiosi spontanea con l’amore di un genitore che ha perduto un affetto imprrituro di fine improvvisa e prematura. Anche se il “testo unico” delle opere carducciane è ricco di letteratura. E va da Juvenilia a Levia gravia, Giambi ed epodi, Rime nuove, Odi barbare, Rime e ritmi. Fanno parte di una “proposta culturale” fiorente e irripetibile che ha attraversato il XIX secolo.