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You are at:Home » I giovani che amarono e morirono per la democrazia
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I giovani che amarono e morirono per la democrazia

RedazioneBy RedazioneOttobre 21, 2019Nessun commento5 Mins Read
 
 

Di Adriano Marinensi – Meraviglia oggi ci siano, in Italia, tanti giovani che non apprezzano più la politica e si sono allontanati dalla democrazia, sostegno fondamentale d’ogni popolo libero, principio orientativo a garanzia d’ogni sviluppo civile e culturale. Sono i giovani del disimpegno. Invece, su questa trincea di difesa dovremmo trovare proprio i giovani che, per loro natura, sono avversari di qualsiasi parvenza di pensiero unico. Lo stupore cresce quando la memoria va ad episodi e situazioni in contrasto, che hanno avuto per protagonisti ragazzi poco più che ventenni, la vita immolata nella ricerca di qualche spazio di libertà.

Ti vengono in mente, per esempio, Jan Palach, studente universitario di Praga e altri suoi coetanei. Per scuotere le coscienze dei connazionali, oppressi dalla dittatura sovietica, il 16 gennaio 1969, Jan Palach salì la scalinata del Museo nazionale, si cosparse di benzina e si diete fuoco. Morì dopo tre giorni di sofferenze. Quel giovane, che pure amava la vita, se la tolse per testimoniare l’insopportabile esistenza gravata dalla coercizione ideologica, negatrice del pluralismo e del dissenso. La lettera che scrisse conteneva un monito forte ai suoi connazionali perché si scrollassero di dosso il senso della rassegnazione. Gli asserviti all’URSS lo definirono “un nevrotico esaltato”, però il suo gesto non riuscirono a dequalificarlo ed a toglierlo dalla storia dei martiri per l’indipendenza. Anzi, una icona dell’opposizione ai regimi dell’est europeo.

 

Non la democrazia, ma il dispotismo governava, all’epoca, in Cecoslovacchia. Così come in Unione Sovietica e negli Stati satelliti. A Praga, nel 1969, si ebbe un respiro di primavera politica (la Primavera di Praga, appunto). L’anno prima, a capo del Governo, era stato nominato Alexander Dubcek il quale aveva un diverso concetto dell’organizzazione sociale. Si mise imprudentemente a parlare di socialismo dal volto umano. Al Cremlino, dal 1964, regnava il compagno ortodosso Leonid Breznev con i pieni poteri di Capo assoluto del Partito e dello Stato. Stalin era morto il 3 marzo 1953 (ufficialmente 5 marzo), ma lo stalinismo imperava ancora. Malgrado la clamorosa denuncia dei crimini, fatta da Nikita Chruscev al XX Congresso del PCUS, nel 1956. Né a Breznev, né ai suoi sodali piacque l’idea di Dubcek che faceva balenare incrinature, incoerenze nella linea retta comunista. Ad est della cortina di ferro, non erano ammesse deviazioni.

C’era stata già, nel 1956, l’esperienza intollerabile dell’insurrezione ungherese, repressa con le armi, causando migliaia di morti tra civili e militari. Adesso era la piccola Cecoslovacchia a dare segni di insubordinazione, quasi reato in un regime da caserma. S’andava parlando di aperture politiche, di decentramento, di qualche spazio concesso alla libertà di stampa e di opinione: per Mosca, i germi pericolosi della democrazia. Fu messo in campo l’esercito del Patto di Varsavia che ristabilì, nell’arco breve di una notte, l’ordine e la disciplina. La Primavera di Praga era durata dal 5 gennaio al 20 agosto, poi fu la restaurazione. E’ in questo clima di ritorno al vecchio, vessatorio sistema politico che si inserisce il movimento dei giovani e il sacrificio di alcuni di loro, evidenziato dal gesto di Jan Palach. Le notizie provenienti da oltre cortina riportarono quanto (poco) fu possibile conoscere attraverso le strette maglie della censura. Non poterono tacere l’invasione dei soldati e dei carri armati e neppure nascondere le condizioni di vita del popolo, gravato dal peso della sovranità limitata e da una arretrata condizione economica. Forse influirono sul tentativo di apertura, in Cecoslovacchia, i moti giovanili del 1968 che agitarono l’Europa con una storica contestazione che ebbe nella Francia di De Gaulle e Pompidou il punto di maggiore impeto.

L’Europa era divisa in due: da una parte il blocco occidentale e dall’altra il blocco orientale, idealmente e materialmente separati dal Muro di Berlino, costruito nel 1961 e abbattuto nel 1989. Circondava Berlino Ovest con una imponente struttura fortificata di cemento armato, lunga 155 km. In molti tentarono di scavalcarlo e non pochi furono uccisi. Tentavano di conquistare una nuova vita, in un Paese libero e democratico. Le stesse aspirazioni di Jan Palach e dei suoi coetanei. Lui pare avesse anche lasciato scritto: “Poiché i nostri popoli (quindi non solo quello cecoslovacco) sono sull’orlo della disperazione, abbiamo deciso di esprimere la protesta per risvegliare l’orgoglio della gente. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la causa”. Scrive Dante nel primo canto del Purgatorio le parole pronunciate da Virgilio a Catone: “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.

Diciamolo allora ai giovani di oggi: Rifiutate ogni “offerta” che metta a rischio la pluralità delle idee; ricusate qualunque richiesta di pieni poteri; ripudiate l’arroganza della politica e l’egoismo della superiorità, la negazione radicale dell’accoglienza, l’autoritarismo, l’intolleranza, l’avanguardismo del potere. Quello della schiavitù del pensiero, cioè della cancellazione dell’intelligenza, è un tempo sospeso, per il singolo e per la collettività. La costrizione sociale rappresenta l’apice della cattività ideologica, la negazione della pari dignità, del solidarismo mutualistico. Sono tutti nemici della democrazia. L’Italia dei tempi nostri non somiglia affatto ai “Paesi satelliti” di allora; però, montare la guardia alle garanzie costituzionali ed allo Stato di diritto è dovere di tutti. Anche con il voto.

Democrazia Jan Palach
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