di Adriano Marinensi – La politica estera, tutta muscoli, di Donald Trump sta suscitando grande apprensione. Le sue navi da guerra presidiano il Mediterraneo e lanciano missili sulla Siria, martoriata da una guerra civile che sembra senza fine. Altre navi USA si sono mosse verso la Corea del Nord, dove un tiranno dissennato evoca l’uso delle armi nucleari. La Russia accusa e annuncia contromosse altrettanto minacciose. I fantasmi di possibili conflitti stanno mettendo in apprensione le diplomazie. Oggi, come una sessantina di anni fa al tempo della “crisi di Cuba”, quando fummo sull’orlo del baratro.
Cuba è una grande isola delle Antille che – seppure alla rovescia – vanta un record: dalla metà del ‘900 in avanti (e chissà ancora per quanto) è governata dalla dittatura. Prima di Fulgencio Batista, poi di Fidel Castro, ora di Raul Castro. Nel 1962 – nel pieno della “guerra fredda” tra USA e URSS – si trovò al centro di una vicenda politico – militare che fece spavento. Il 14 ottobre di quell’anno, un aereo spia americano fotografa una installazione di missili sovietici a testata nucleare sull’isola. Alla Casa Bianca c’ è John Fitzgerald Kennedy, eletto alla carica, nel 1960, quando aveva soltanto 43 anni (è stato assassinato a Dallas, il 22 novembre 1963); al Cremlino, Nikita Kruscev che ha stretto una alleanza ideologica con il regime castrista e comunista di Cuba. Di fronte alle foto scattate dall’aereo, il Governo degli Stati Uniti si allarma. Stanno costruendo, a circa 150 km dalle coste orientali, un impianto offensivo che rappresenta una potenziale minaccia.
E’ immediata la convocazione del Consiglio Nazionale per la Sicurezza dello Stato. Tre le opzioni prese in esame: 1) il bombardamento delle postazioni presenti a Cuba; 2) il blocco navale intorno all’isola (poi lo chiamarono “quarantena” perché non sembrasse un atto di guerra); 3) l’invasione armata di Cuba. Affatto marginale, a Washington, il confronto tra i poteri, con i “falchi” in uniforme a spingere per l’assalto immediato al regime castrista. Kennedy decide per la quarantena, seguita dall’ammonimento, rivolto all’avversario russo, di non oltrepassare lo sbarramento navale statunitense. La stretta amicizia con Cuba è, per i sovietici, un punto fermo di pressione strategica, sugli Stati Uniti che, a loro volta, hanno basi militari in Italia e in Turchia, come sentinelle d’allarme pronte ad intervenire.
“Gli USA – afferma Kennedy – sono pronti per ogni evenienza”. E aggiunge in un altro discorso: “Considereremo ogni missile nucleare lanciato contro qualunque nazione come un attacco contro gli Stati Uniti che provocherà una rappresaglia a danno dell’Unione Sovietica”. Riunione d’urgenza anche dell’Assemblea dell’ONU, dove sono mostrate le foto incriminate. Intanto una flottiglia di navi russe sta dirigendosi verso l’isola, con altri impianti missilistici a bordo. Enorme la tensione e la paura di fronte ad un possibile scontro. L’ordine impartito prevede che tutte le navi dirette a Cuba, di qualsiasi nazionalità, siano ispezionate e respinte se sorprese a trasportare armi d’offesa. E tal punto, l’interrogativo diventa: se una delle imbarcazioni russe tenta di superare lo sbarramento, gli americani reagiranno con la forza?
Al tavolo da gioco di quella terribile partita a scacchi, condotta sul rischio del primo colpo sparato, stavano seduti due macabri convitati di pietra, cioè gli arsenali atomici delle superpotenze. Insieme alle consolidate inimicizie, al di qua e al di là della Cortina di ferro. Inimicizie che, in precedenza, avevano trovato acceleratori in almeno due episodi: la tentata invasione di Cuba, nel fallito sbarco di profughi anticastristi (aprile 1961), sostenuti dagli USA, nella Baia dei porci (Bay of the pigs); sull’altro fronte, la costruzione del Muro di Berlino (iniziato nel1961 e abbattuto nel 1989) con la divisione in due della Germania occupata, quella filosovietica ad est, l’altra ad ovest, filo occidentale. In entrambe le occasioni, la contrapposizione degli interessi nazionali e di strategia internazionale avevano messo in pericolo i rapporti, in una sorta di roulette russa (e americana). Addirittura, al confine tra le due zone di Berlino, s’erano fronteggiati i carri armati dei due blocchi in competizione.
La crisi di Cuba raggiunge il punto di maggior pericolo il 27 ottobre, quando il Comando aereo americano, senza informare la Casa Bianca, mette le sue unità in stato di guerra. Due giorni prima, dalla Santa Sede era partito un accorato e fermo messaggio, attraverso la Radio Vaticana, poi consegnato agli Ambasciatori americano e sovietico. Anche il Governo italiano, presieduto da Amintore Fanfani, era intervenuto sugli Stati Uniti in virtù degli ottimi rapporti tra i due Paesi e in nome della comune fede democratica.
Alla fine di tale disperante braccio di ferro su chi dovesse fare il primo passo per uscire dalla contesa, prevale la ragione di entrambi. Kruscev ordina alle sue navi, arrivate a poca distanza da Cuba, di invertire la rotta e Kennedy promette solennemente di non più attentare all’indipendenza dell’isola. Salva dunque la pace mondiale e, in seconda istanza, pure la dittatura di Castro, al comando dell’isola dal 1959, avendo quell’anno i “barbudos” di Fidel rovesciato l’altro dittatore, Fulgencio Batista, che se l’era svignata portandosi appresso 100 milioni di dollari. Per documentare quei fatti terribili, nel 2000, è stato girato un film intitolato “Thirteen Days” (Tredici giorni), con Kevin Costner, ove si narrano sopratutto le convulse ore vissute alla Casa Bianca.
La pace era salva, però aveva corso il più grave pericolo dalla fine della 2^ guerra mondiale. L’11 aprile 1963, Giovanni XXIII, profondamente toccato dalla vicenda, scrisse la famosa Enciclica “Pacem in terris”, diretta al clero cattolico, “nonché – sta scritto in lettere maiuscole – a tutti gli uomini di buona volontà”. L’argomento è specificato così: ”Sulla pace tra tutte le genti, nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”. Poi, più avanti il monito: “Con l’ordine mirabile dell’universo, continua a fare da stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli”. Quindi, il Pontefice volle elencare i diritti e i doveri dell’uomo e dei potenti, necessari per tutelare le pacifiche relazioni. Tra i doveri è citata la mutua collaborazione, l’attitudine alla responsabilità, la convivenza nel rispetto internazionale. Dunque un messaggio di profetica umiltà, lanciato da Angelo Roncalli, il “Papa buono”, rimasto al governo della Chiesa dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963, quando un tumore lo ricondusse alla casa del Padre. Ebbe il grande merito di aver indetto il Concilio Vaticano II, poi concluso da Paolo VI.