di AMAR – La notizia d’abbrivo dalla quale partire dice: Demolita la sesta Vela di Scampia. Per Vela si intende un fabbricato di notevoli dimensioni, pieno zeppo di appartamenti, facente parte del gigantesco progetto, realizzato con finanziamenti pubblici, tra il 1962 e il 1975, nell’area di Napoli. Erano 7 i casermoni (7 come i peccati mortali) concepiti sulla base di uno dei criteri avveniristici di edilizia popolare, poi finiti nel degrado strutturale e sociale. Rappresentano anche quel tipo di costruzioni da considerare carcere edilizio per uomini liberi, condannati dai geni dell’urbanistica d’assalto a vivere come le api nell’alveare. Il tenue ronzio sostituito dalle mille cacofonie del diavolio domestico ed esterno di una comunità assortita verso il basso.
Muri fallaci quelli di Scampia, come ignobile fu il muro di Berlino, tutti destinati alla decomposizione. Un parallelismo arbitrario? Io credo di no. Però, me ne assumo, insieme alla paternità, la responsabile enunciazione. Hanno rappresentato – seppure a diverso titolo e ruolo – la sconfitta di idee sbagliate e della vergogna. Meritano di essere ricordati insieme perché iniziati a costruire quasi contemporaneamente, i muri di Napoli nel 1962, quello di Berlino nel 1961.
Ecco quindi, oltre il paragone, la storia. Per 28 lunghi anni, i cittadini (forse meglio i “sudditi”) della D.D.R. (Deutsche Demokratische Republik), vissero prigionieri con il chiodo fisso dell’evasione verso la libertà. E la libertà, insieme alla dignità, al progresso civile, stavano al di là del muro, nella B.R.D. (Bundes Republik Deutschland). Un muro lungo decine di chilometri tra cemento e filo spinato, barriera kaputt alla quale montava la guardia e sparava, eccome se sparava, la “gestapo” comunista. All’improvviso, divise in due la vecchia capitale del Reich sotto l’influenza sovietica ed americana. Occorreva frenare il continuo esodo dei tedeschi orientali che sceglievano di abbandonare la loro zona per cambiare vita e costumi. Migliaia poi quelli che risiedevano da una parte e lavoravano, studiavano, facevano i pendolari attraversando quotidianamente il confine. Da un giorno all’altro il muro bloccò tutti questi flussi, con un impatto sociale drammatico per moltissime persone e famiglie. Una condizione assurda. Le foto d’epoca ci mostrano persino un enorme palazzo con le finestre murate, in quanto inserito nel gigantesco manufatto. E addirittura una abitazione, posta a cavallo della linea di demarcazione, rimasta metà ad est e metà ad ovest. Est ed ovest non erano soltanto punti cardinali. Quell’est era piuttosto il ricordo, non ancora sbiadito, della logica perversa dei campi di concentramento.
La trappola faceva la stessa funzione del fossato tutt’intorno ai castelli medievali, però senza ponte levatoio. Nessun varco per nessuno. I nonni, arrampicati sopra le scale di legno, salutavano i nipoti rimasti oltre il mostro. A fare da impedimento collaboravano i fiumi di Berlino, la Sprea e l’Havel, che molti tentarono di attraversare. Ho letto di una coppia di giovani sposi avventuratisi di notte, a nuoto, trascinando un involto impermeabile con dentro un bambino di pochi mesi. Il Caronte dantesco, all’inferno, traghettava le anime con minore pena e pericolo. Un muro dunque guardato attraverso l’anelito di evasione di tanti “reclusi” dentro un regime di rigore ideologico. Il pensiero ristretto dentro una gabbia di divieti, di censure. In più l’ ”interdetto della guerra fredda” ad aggravare la condizione forse per sempre. Invece durò sino al 9 novembre 1989, quando il potere filosovietico della Germania est mise la parola fine all’ “apartaid” e la gente prese a picconate quel serpente velenoso, ponendo le basi per la riunificazione delle due Germanie e decretando l’inizio della fine del comunismo di stampo sovietico.
Da un cemento armato all’altro. A quello di Scampia, nato da una concezione urbanistica che sembrava d’avanguardia e invece creò dei mostri edilizi, allestiti seguendo un principio: concepiva l’abitare una convivenza sociale, collettiva e l’unità abitativa familiare del singolo ridotta al minimo indispensabile interno, però con ampi spazi esterni destinati alla vita di relazione. Quindi, una serie di macrostrutture corredate di servizi che rendessero la socialità un valore primario. Addirittura, le facciate colorate in modo vistoso, onde accrescere l’effetto visivo.
La denominazione Le Vele derivò dal tipo di costruzione: una base larga che tendeva a stringersi in alto. Nell’insieme un complesso enorme con dentro una ridda di famiglie per assemblare una comunità e realizzare una sorta di città modello nel territorio urbano di Napoli. La teoria, una volta realizzato il modello, entrò in conflitto con la pratica. Che invece, in costa Azzurra aveva funzionato; i soliti maligni a dire che li, nel “modello vip”, non c’erano i napoletani. Insomma, un ghetto con una massiccia presenza abusiva degli sfollati del terremoto in Irpinia (1980). La sede di traffici d’ogni genere, una sorta di supermercato della droga, gestito dal malaffare.
La promiscuità, in gran parte irregolare, trovò terreno fertile per far attecchire l’illegalità organizzata e le Vele di Scampia diventarono il simbolo della decadenza. E il naturale teatro di posa per il film Gomorra che consegnò all’opinione pubblica la visione di uno spaccato civile preoccupante. La situazione, verso la fine degli anni ’80, divenne ingovernabile. Il comparto s’erano riempito di gente che viveva ben oltre il confine della legge. Venne assunta la decisione drastica: demolire l’intera struttura. E cominciarono gli abbattimenti, operazione non facile per le condizioni che s’erano incancrenite. Dopo quest’ultima demolizione, delle sette Vele di Scampia ne rimarrà una sola da ricondizionare e destinare ad uso uffici della città metropolitana. E’ questa la storia parallela tra muri dissipatori di pubblico denaro (a Napoli) e muri nefandi (a Berlino). Ci sono muri e muri, ma il cemento selvaggio è tutto uguale. Di recente, Roberto Saviano ha titolato un articolo: Cade Vela verde, ma non basta per abbattere Gomorra.