di Adriano Marinensi – C’è una frase, diventata storica (Alea iacta est!) attribuita a Giulio Cesare, che segna il guado di un fiume, il 10 gennaio del 49 a.C., ma ancor più il passaggio dalla Repubblica alle propaggini dell’Impero romano. L’episodio lo racconta Svetonio nel suo “De vita Caesarum”. Il trionfante conquistatore delle Gallie, da alcuni studiosi definito il massacratore dei Galli, stava tornando in Italia “onusto di gloria, di ricchezze e di potere”. I cittadini erano dalla sua parte, un po’ meno il Senato che quel potere aveva cominciato a temere. Perciò l’ingiunzione a Cesare di “restituire l’esercito”. Come si fa ad ordinare ad un condottiero vittorioso l’uscita di scena? Infatti, Cesare disse di no. E così ebbe inizio un confronto tra due posizioni molto distanti, quasi opposte.
Cesare si era fermato a Ravenna, fuori dal territorio di Roma. Aveva con se soltanto una legione, però di fedelissimi, votati alla morte per lui. Pompeo, il suo alleato al tempo nel triunvirato con Crasso, gli aveva voltato le spalle e dettava legge in Senato. C’era in Romagna, tra Ravenna e Rimini, un piccolo fiume, quasi torrente, che però aveva una funzione strategica: segnava un tratto di confine geopolitico tra l’Urbe e la Gallia cisalpina (il resto delle Gallie stava al di la delle Alpi). La tradizione stabiliva che chiunque lo avesse passato in armi diventava nemico di Roma.
Disse veramente alea iacta est, cioè “il dado è tratto” oppure, come sostenuto da Erasmo da Rotterdam, alea iacta esto, vale a dire “sia lanciato il dado”? Questione di lana caprina, si capisce. Sta di fatto che, per un generale romano compiere quel gesto equivaleva ad una dichiarazione di ostilità avverso la Patria. Cesare ci pensò a lungo, cercando la pace attraverso la trattativa. Non venne a capo di nulla e quindi giunse l’ora delle decisioni irrevocabili. Anzi l’alba del 10 gennaio 49 a.C. quando, alla testa della Legione, passò sull’altra sponda del Rubicone. Iniziava quel giorno la guerra civile durata sino al 45 a.C. Aveva con lui pure gli autorevoli Tribuni della plebe (titolari del diritto di veto) che si erano spesi, inutilmente, in Senato, per arrivare ad un compromesso.
Dunque, il dado era tratto con l’attraversamento del fiumiciattolo: fu un piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per la storia della romanità. Cesare giunse presto dalle parti di Roma e subito Pompeo e i pompeiani si dettero alla fuga, prima a Brindisi (come fece, il 9 settembre del 1843, Re sciaboletta sulla fregata Baionetta), dopo in Macedonia, infine in Egitto. Fu li che il Faraone, per entrare nelle grazie del potente romano, fece vilmente assassinare Pompeo. Prima c’era stata la sanguinosa battaglia di Farsalo, in Grecia, nel 48 a.C. tra gli eserciti di Giulio Cesare e Pompeo Magno. Vinse Cesare e si diresse in Egitto dove gli offrirono la testa mozzata di Pompeo. A quella vista – scrive Plutarco – “si girò via con ripugnanza e scoppiò in lacrime” (forse perché era Pompeo il genero, avendo sposato sua figlia Giulia). Cacciò il Faraone e pose sul trono d’Egitto Cleopatra. Al Senato romano chiese di porre nell’aula la statua di Pompeo.
La sorte decise che, proprio ai piedi di quel simulacro, Cesare dovesse morire durante le idi di marzo del 44 a.C. La moglie Calpurnia e l’indovino Spurinna l’avevano avvertito: Guardati dalle idi di marzo! E perché? Lui era Cesare, il padrone di mezzo mondo conosciuto, l’idolo del popolo: un semidio intoccabile. Invece, appena arrivato in aula, al Senato, gli toccarono 23 pugnalate. Scrive Svetonio: “Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono e subito Cimbro Tillio si fece vicino per parlargli, però lui rifiutò di ascoltarlo e Casca lo colpì ferendolo alla gola. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti, si avvolse la toga attorno al corpo per morire dignitosamente.” L’epoca appena seguente fu assai tribolata per Roma; la Repubblica visse in mezzo ai conflitti; i cesaricidi non ebbero buona sorte. William Shakespeare fa recitare a Marco Antonio il monologo funebre nel “Giulio Cesare” per sollevare l’ira dei romani contro gli assassini. Persino Dante, nella Divina Commedia, pone i capi della congiura nelle fauci di Lucifero, insieme al traditore di Cristo Giuda Iscariota. Nel 42 a.C., a Filippi, in Macedonia, si giunse alla resa dei conti: Bruto e Cassio furono battuti da Antonio e Ottaviano, a quel tempo ancora alleati. Pure in Umbria ci fu un episodio cruento quando Lucio Antonio, fratello di Marco, lo assadiarono a Perugia e dovette arrendersi. E Ottaviano fece scempio degli aristocratici della città etrusca.All’epoca, Marco Antonio se ne stava in Egitto a perder tempo con la regina Cleopatra, quella stessa della tresca con Giulio Cesare e gli aveva dato un figlio, Tolomeo XV Filopatore Filometore, detto Cesarione. Saltò anche la pace tra Ottaviano e Marco Antonio: i due vennero in battaglia ad Azio. Sul mare, nel 31 a.C. combatterono due grandi flotte e Ottaviano prevalse. Mentre il rivale si suicidò. Giunse allora l’epoca di Gaio Giulio Cesare Ottaviano, all’anagrafe più semplicemente Gaio Ottavio Turino. Al suo nome, già altisonante, il Senato aggiunse quello di Augusto. E lui divenne ufficialmente il primo Imperatore dei romani, governante illuminato, però detentore d’ogni insindacabile potere, compreso quello di supremo capo religioso. Di statue che lo raffigurano, Roma, ancora oggi, ne conserva più d’una. Così come fa bella mostra l’Ara Pacis Augustea in Campo di Marte. L’Augusto è morto d’agosto, a Nola, nel 14 d.C.
Nel racconto abbiamo incontrato un pezzo di Roma repubblicana, un pezzo di impero romano. In conclusione, uno sguardo veloce all’Urbe monarchica. A Romolo, Numa Pompilio, Tutto Ostilio e via, via sino a sette. Romolo, il fondatore non aveva cominciato per niente bene. La leggenda parla di lui pure come fratricida. Sul colle Palatino, tracciò il solco per delimitare la città, vietando a chiunque di attraversarlo con la spada in mano. Il gemello Remo lo fece e lui, per così poco, lo uccise. A scuola mi dissero che fu d’aprile nel 753 a.C. Prima c’era stata la quasi favola dei due gemelli appena nati, messi in una cesta, gettata nel Tevere e l’incredibile allegoria della lupa che diede loro il latte. Romolo e Remo dunque “figli della lupa” come me una ottantina di primavere orsono, vestito alla marinara. La monarchia durò 242 anni, sino al 509 a.C. quando i Tarquini furono esiliati da Roma. Questa la goccia che fece traboccare il vaso. Accadde che Lucrezia, moglie di Lucio Collatino venne violentata da Tarquinio Sesto, figlio del Re e si uccise. Lo narra Tito Livio in “Ab urbe condita” e dice che il marito oltraggiato, insieme a Lucio Giunio Bruto, suscitò lo sdegno popolare, decretando cosi la fine del regime monarchico a Roma.
Questi sono gli antichi. I Re di Roma moderni si chiamano Alberto Sordi, il Romolo della situazione, e Gigi Proietti, morto qualche giorno fa, quando ha voluto fare l’ultima mandrakata: se n’è andato preciso, preciso, in occasione del suo ottantesimo compleanno. Ce ne sarebbe attualmente un terzo Re di Roma: Francesco Totti. Ma, questa è soltanto una esagerazione pallonara.