di Adriano Marinensi – Secondo il Talmud (uno dei testi sacri dell’ebraismo), ogni generazione conosce 36 uomini (o donne) dalla condotta dei quali dipende il destino dell’umanità. Eserciterebbero il loro potere soccorritore quando su Israele incombe una minaccia. Per esempio, il pericolo delle persecuzioni naziste durante l’ultima guerra mondiale. E’ in quel tragico momento che le persone “speciali”, per altruismo e coraggio, sono intervenute, non in 36, ma in tante di più ed hanno salvato la vita di migliaia di ebrei. Nel 1963, è stata nominata, in Israele, una Commissione per esaminare documenti e testimonianze che dimostrino l’aiuto prestato da non ebrei ad ebrei minacciati. E la Commissione ha redatto, con puntuale precisione, l’elenco dei Giusti tra le Nazioni. Chi è ritenuto degno dell’onore, viene insignito di una medaglia e il suo nome scritto nel Giardino dei Giusti. Si tratta di un riconoscimenti di alto significato civile e morale.
Durante la recente trasmissione televisiva, dedicata alle bellezze di Firenze e della Toscana (un “palinsesto” che, per qualità, riscatta le penose pochade dedicate al cucinare domestico), Corrado Augias ha parlato di un Giusto tra le Nazioni un po’ particolare: il campione ciclista Gino Bartali. Il suo nome figura nel prestigioso “giardino” per una singolare azione di salvataggio. Aveva già vinto due Giri d’Italia (1936 e 1937) e un Tour de France (1938) ed era già un campione ciclista famoso. Doveva allenarsi sulle lunghe distanze e quindi il suo andare e venire dalla Toscana in Umbria, da Terontola ad Assisi, riuscì a superare i rigidi controlli nazisti.
Quel pedala, pedala però aveva uno scopo, umanitario e pericoloso: dentro il telaio della bicicletta portava documenti che servirono per fornire nuove identità ad alcune centinaia di ebrei nascosti nelle Chiese e nei Conventi dell’Umbria, sottraendoli alle grinfie degli sterminatori di Hitler. E’ il motivo accertato dell’alta benemerenza attribuita all’uomo più che all’atleta: Giusto tra le Nazioni, appunto. Che è pure presente nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Ricorda lo stesso giorno del 1945, quando l’Armata Rossa entrò nel campo di sterminio di Auschwitz e constatò per la storia gli orrori del genocidio.
Augias, nella sua narrazione piana ed efficace, ha inserito un altro episodio della vita di Bartali. Perché, oltre a tutelare gli ebrei, pare abbia preservato gli italiani dai pericoli di un cruento scontro politico. Accadde nel 1948, un anno cruciale per la risorta democrazia nel nostro Paese. Le elezioni generali s’erano svolte il 18 aprile in un clima di scontro non soltanto ideologico. Aveva vinto la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi sul Fronte Popolare guidato da Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista. Proprio Togliatti, alcuni mesi dopo (14 luglio 1948) fu vittima di un attentato. Che Augias ha richiamato alla memoria dei telespettatori. Uno studente, Antonio Pallante gli sparò alcune rivoltellate, ferendolo gravemente e gli accesi contrasti politici si rinfocolarono all’improvviso. Al limite della guerra civile. A tal punto, ecco entrare in scena i due protagonisti dell’evento, un po’ storia e un po’ leggenda: Alcide De Gasperi e ancora Gino Bartali. Il Capo del Governo alle prese con le conseguenze di quell’ attentato e il ciclista impegnato sul difficile percorso del Tour de France. Occorreva un “diversivo” sportivo, tipo grande impresa, per attenuare la tensione nazionale. Le cronache d’epoca – e Augias le ha richiamate – parlano di una telefonata partita da Roma verso le strade di Francia: “Sono Alcide De Gasperi. Caro Gino (era detto il Pio per la salda fede cattolica), l’Italia è nei pasticci. Sai cosa è successo e i pericoli che stiamo correndo. Sono necessari alcuni tuoi successi al Tour”. Pressappoco così il messaggio. Non facile da tradurre in atti concreti.
Bartali aveva un ritardo in classifica di circa 20 minuti dal forte campione francese Luison Bobet. L’unica speranza stava in cima alle salite alpine ancora da affrontare. E Gino le affrontò di gran carriera, una appresso all’altra, all’attacco; salite mitiche, violente: Vars, Izoard, Lauteret, Galibier, Croix de Fer. Su, su, lungo strade ancora in parte sterrate, con i tubolari a tracolla e le forature all’ordine del giorno. L’italiano si fece leone, spinto dall’ardore agonistico e forse – qualcuno scrisse – pure dall’amor di Patria. Vinse in montagna e vinse il Tour tra l’entusiasmo dell’Italia sportiva e non solo. Il trionfo lui lo mise nell’albo doro insieme all’altro precedente, ai 3 Giri d’Italia (4 volte secondo), 2 di Svizzera, alle 4 Milano – Sanremo, ai 3 Giri di Lombardia, ai 5 di Toscana e molto altro: 20 anni di professionismo e 124 vittorie, nell’epico confronto con Fausto Coppi, l’aiglon. Il bonario brontolone (“l’è tutto sbagliato, tutto da rifare”) è morto il 5 maggio 2000 a 86 anni. Il Presidente della Repubblica italiana gli ha conferito la medaglia d’oro al merito civile. Nella motivazione, si legge: “Per aver contribuito a salvare circa 800 cittadini ebrei. Mirabile esempio di grande spirito di sacrificio e di umana solidarietà.”
Tanta solidarietà ci volle durante gli anni terribili della guerra armata; altrettanta ne occorre oggi per alleggerire le pene causate dall’emergenza sanitaria che sta mietendo vittime in ogni dove. Nel silenzio domestico, nella segregazione degli ospedali. Disperatamente. Ogni giorno, da tantissimi giorni, abbiamo fatto l’abitudine al rendiconto dei morti e dei contagi. La domanda ricorrente: Oggi, quanti? La lotta al virus ha trasformato persino le sensibilità. Fatti sconvolgenti come le morti seriali sono entrati nella quotidianità, mischiati tra le notizie degli organi di informazione, ogni giorno, in attesa di altrettanti numeri funerei del giorno dopo. Una fatalità inoppugnabile.
Nella scala delle conseguenze, stanno ai primi posti l’interruzione degli affetti, delle relazioni umane, persino tra parenti diretti: genitori lontani dai figli, i nonni senza i nipoti, gli amici fraterni, abituati a stare insieme, ora sono dispersi nell’isolamento, tante forme sociali quasi estinte. Persino la comunità del bar oppure dell’andare allo stadio in comitiva. E’ l’esasperazione delle solitudini, delle misantropie. E l’essere da soli acuisce le nevrosi, spariglia i sentimenti. Alcuni tiranni sono saliti al potere: il cellulare, il tablet, il computer, la T.V. futilmente ipocrita, il messaggiare compulsivo che ruba il tempo rarefatto. Per i cosiddetti lavoratori da remoto, il tavolo della sala da pranzo è diventato la scrivania. Insieme all’immobilità paralizzante del divano, la conferenza aziendale previo appuntamento. I costumi di vita familiare (anche le “incompatibilità di carattere”) hanno subito modifiche preoccupanti e la luce in fondo al tunnel non si vede ancora. Malgrado le vaccinazioni immunizzanti. Siccome l’economia è agonizzante, ora si prova a riaprire: in modo ragionato, dice Draghi. Speriamo abbia ragione lui.