Di Adriano Marinensi – Sempre più spesso, sopra le confezioni di alcuni generi alimentari, si legge la scritta “Senza olio di palma”. Pare che questo additivo non sia granché salutare. Inoltre, talune aziende hanno inteso prendere le distanze da quanto sta accadendo nei Paesi dove si producono appunto enormi quantità di olio di palma. Per esempio, in Indonesia, lo Stato che ha creduto di scoprire un nuovo eldorado nel commercio di tale prodotto. Però, con conseguenze disastrose per l’ambiente e addirittura per l’ecosistema mondiale.
Va precisato che l’Indonesia possiede una delle più estese superfici boscate del pianeta, da anni ormai aggredita dal taglio alla base di grandi quantità di alberi dal legno pregiato e per far posto alle piantagioni delle palme. Dopo di che, la biomassa residua viene distrutta con il fuoco, dando così origine a devastanti incendi che immettono in atmosfera immense quantità di anidride carbonica. Gli esperti la stimano addirittura pari a quella dell’intero sistema economico – produttivo degli Stati Uniti. Da uno studio effettuato comparando la temperatura di un terreno alberato con quella di uno privo oppure privato di vegetazione, si riscontrano differenze sino a dieci gradi. Su grandi superfici, il fenomeno si traduce in un apporto calorico rilevante nel funesto innalzamento della temperatura del pianeta.
Denuncia Greenpeace: “Ogni anno, la nube di cenere che dall’Indonesia si spande nei cieli dei Paesi vicini, rilascia migliaia di tonnellate di CO2”. E il WWF aggiunge: “Entro il 2020, le foreste indonesiane saranno distrutte”. Greenpeace ha provato azioni di contrasto come i Campi di resistenza forestale e gli abbordaggi simbolici alle navi cisterna che trasportano l’olio di palma. Ha scritto, di recente, il settimanale “L’Espresso”: “Da due decenni, le foreste dell’Indonesia, uno degli habitat più variegati del pianeta, terzo al mondo per estensione, bruciano per lasciare posto ad enormi distese di palme da olio”. La stessa rivista, già nel dicembre 2007, aveva pubblicato un servizio d’imputazione dal titolo: “Ecobomba Indonesia”. C’era scritto: “Se si distrugge – come sta succedendo – la torbiera di Riau (in mezzo all’Isola di Sumatra), poco più di 4 milioni di ettari, la stessa superficie della Svizzera, si liberano nell’aria 49 milioni di tonnellate di CO2”.
I metodi di deforestazione e di coltivazione delle palme da olio sono definiti aggressivi per la esagerata proliferazione di inquinante, in contrasto con gli accordi internazionali che tendono a contenerla, essendo responsabile principale dell’effetto serra. Ma, si sa che quando c’è sotto un grosso business, nel settore dei grandi affari non si nutrono troppi scrupoli per i danni provocati. E allora, di conseguenza, viene da scrivere, se i comandamenti sono dieci e i buoni cristiani li rispettano, i buoni cristiani (e pure gli altri che lo sono di meno) sappiano che, in questa nostra epoca, esiste l’undicesimo comandamento: Non inquinare! Chi non adempie il precetto, credente o miscredente, commette peccato mortale contro il creato e il suo creatore. Visto quanto sopra, dev’essere chiaro un punto fermo: noi umbri, che abbiamo i colli resi intensi dal colore verde dei grintosi ulivi, nessuna complicità possiamo accettare con chi produce oli di diversa natura e qualità. Quindi non v’è bisogno alcuno di scrivere sulle confezioni alimentari dei prodotti locali “Senza olio di palma”. E’ lapalissiano trattarsi di “extravergine” e basta. Perché l’olivicoltura, in Umbria, è quasi una fede.
A Terni, non abbiamo foreste da incendiare come in Indonesia. I boschi sono solo sulle alture. Nel piano, c’è qualche grande giardino che, facendo violenza al vocabolario ed al rispetto per l’ecologia, da queste parti chiamano parco. Vedi il parco di Cardeto, un fazzoletto di terra rubato ai palazzinari, oltretutto appiccicato ad una strada di grande traffico, ben coadiuvata nell’azione che sofistica l’aria, da alcuni distributori di benzina.
Avevamo, sparpagliata sul territorio urbano, una discreta presenza di grossi e annosi pini. Ma, un malaugurato giorno (marzo 2015), accadde, a Terni, quel che raramente accade: si è messo a tirare un vento della malora, da scombussolare l’ambiente, e dalle scale del Municipio è scesa un’orda di taglialegna che ha fatto scempio di quei pini, in nome della pretesa “operazione sicurezza”. Al posto di usare il cervello, strumento pressoché indisponibile, per “irrobustire” gli alberi un po’ sbalestrati, Attila e i sui unni hanno messo mano alle motoseghe, al grido taglia ch’è rosso.
Ne ha fatto le spese un patrimonio arboreo rilevante, manomesso dalla scarsa sensibilità di chi doveva tutelarlo. Visto che veniva facile tagliarli i pini, più che difenderli, l’accusa d’essere pericolosi ha assunto carattere permanente e l’“operazione sicurezza” è ancora oggi in corso (è di qualche giorno fa, l’”esecuzione” di quelli presenti all’interno della foresteria ex AST, in Corso Tacito). Si procede senza troppi complimenti: Zacchete! il pino e il problema non ci sono più. Io credo che, proprio al cospetto di una perfida lama, intenta ad abbattere una pianta adulta, per un amico del bosco, lo sgomento attonito diventi oppressione intollerabile. E il sentimento che nasce addosso sia suggeritore di istinti selvaggi. Siamo, per la conformazione orografica del territorio, in una conca che ha estremo bisogno di ombra per attenuare la canicola estiva e di rami frondosi per trasformare in ossigeno l’anidride carbonica. Il verde, come arredo urbano a carattere intensivo, rappresenta quindi il giusto orientamento amministrativo.
Per quel che riguarda Terni, ci sarebbe un’altra notazione telegrafica da aggiungere (anzi, ripetere, perché scritta molto tempo addietro), riferita alla sua struttura edilizia. Crea ostacolo alla buona vita ed alla migliore creanza, l’urbanistica fatta a tavolino, in passato, troppo spesso incline alle pretese di chi costruisce case per alloggiare, più che per abitare. Talché, mi viene da concludere che, se il Piano regolatore si chiamasse libertà (purtroppo, nella fattispecie, libertà d’uso del cemento armato), guardando Terni, si potrebbe dire, con Maria Antonietta di Francia: “Libertà, libertà, quanti delitti in tuo nome!” E allora, soltanto prendendo coscienza che non viviamo in luogo ideale, si riuscirà a riqualificare l’ambiente, attraverso una nuova scuola di pensiero, capace di mettere le esigenze del cittadino (e dell’estetica costruttiva, perché no?), al centro di un nuovo processo culturale e politico di alta qualità sociale. Pur se, i buoi sembrano fuori dalla stalla.