di Francesco Castellini – «A cosa serve la filosofia? A niente. Come inutile è la musica, la poesia, le arti plastiche e figurative… Sono strumenti neutri, nati per suggerirci qualcosa sulla natura dell'uomo e sull'essenza di una vita che gli somiglia. Mezzi e non fini. Sta a noi dargli in significato». Viene in mente Aristotele sentendo parlare Franco Venanti.
Così come il filosofo greco anche questo artista perugino privilegia la speculazione intellettuale, la provocazione. Di tutto questo ne ha fatto la sua stessa ragione di vita. «Il piacere della scoperta è l'unica cosa che ha dato spinta alla mia lunga esistenza» – dice il maestro che maestro non vuol essere chiamato. «Io non sono nessuno, ho tutto da imparare e poco da insegnare, se non ad essere liberi, a seguire quello che si sente dentro, a narrare le proprie scoperte, perché l'arte è un linguaggio, è uno straordinario mezzo per comunicare e soprattutto serve quando si ha qualcosa da dire».
E all'arte Franco ha dedicato tutta la sua esistenza. A lui piace leggere e riprodurre la realtà, attraverso il filtro della fantasia, della creatività effervescente ed indomabile. Un modo come un altro in fondo per continuare a volare al di là di ogni ostacolo culturale o spaziale. Un modo per ritagliarsi uno spazio proprio, incorruttibile dai guasti del tempo. Non a caso i suoi quadri raccontano storie sospese, non catalogabili in nessuna maniera. Nelle sue tele si ritrovano principesse e re, draghi e cavalieri, putti, bambole e treni a vapore, ma anche figure di robot dall’aspetto umano che proiettano fra di noi frammenti di una galassia lontana.
Franco Venanti da sempre dipinge, ma soprattutto come Diogene ama scandagliare, inoltrarsi fra i meandri dell'animo umano. Più che un pittore viene da definirlo un pensatore che ha fatto della pittura figurativa una leva di guarigione di sé, dell'essere. Viene in mente tutto questo sentendolo parlare circondato dai tanti ammennicoli, dalle sue bambole, dai giocosi e splendenti “reperti” di una vita intensa, che fanno bella foggia nella sua casa-museo di via XX Settembre. Lo definiscono artista, ma è un termine riduttivo. Venanti ha fatto di sé la più importante delle sue opere d'arte. Tutto il resto è relativo. A lui piace scegliere, selezionare e anche immedesimarsi negli altri, fino a porsi al centro dell'universo, ma solo per guardarsi intorno.
Dice: «Non ho mai smesso di chiedermi a cosa serva questa vita, se abbia un senso davvero, se sia un viaggio che porta da qualche parte?».
Venanti ha superato le 85 primavere. Un anno fa il suo cuore si è fermato e poi è ripartito per miracolo, rendendolo paradossalmente più forte e più tenace. «Finché mi sarà dato vivere cercherò di capire l'incomprensibile, ciò che non ci è dato nemmeno ipotizzare, forse neppure teorizzare». Un eclettico, nel corso della sua carriera si è cimentato in forme d'arte diverse e negli anni ha maturato un amore profondo per tutto ciò che riguarda l'uomo.
«Mi sento piccolo, qualche volta mi sono smarrito, eppure non mi sono mai perso, non mi sono mai arreso». «Ho sempre voluto osare, guardare oltre, inoltrarmi nell'ignoto, nel mistero, attratto da tutto ciò che è magico, a partire dall'essere umano, da questa espressione divina che ha il potere di inventare, di creare, di fantasticare, di scegliere il proprio destino come nessun'altra creatura al mondo».
E questa attrazione per il bello, per il misterioso, per lo stravagante, è ciò che si sedimenta poi nei suoi dipinti, che mantengono intatti la potenza del tratto pittorico, la sapienza delle luci, e anche un riflesso specchiato da cui colui che guarda non può che lasciarsi irretire, perché vi si ritrova e vi si riconosce.
Lui lo spiega così: «Io sono una parte di un tutto. Non ho mai concepito l'arte come un fatto esclusivo. Non mi sono mai fatto confondere dalle mete, dai traguardi raggiunti. E c'è sempre qualcosa da imparare, da scoprire. Volta per volta s'imboccano strade diverse. E percorrendole fino in fondo ci si può fermare sul ciglio per curiosare nelle vie traverse. Altrimenti ci si annoia o si diventa matti».
E in ogni opera trapela un odio per l'arroganza, un'idiosincrasia verso il potere.
Si guardano quei dipinti e vi si coglie il timore di far parte di quella umanità omologata, viene la paura di essere confusi, di essere travolti da quella risma di anime che non riescono più a distinguersi.
«La tirannia non è solo politica ma anche culturale. La Gioconda non mi piace. Ci sono pittori migliori di Van Gogh. Ai grandi non ci ho mai creduto. Chi crede di sapere tutto non sa nulla e soprattutto non ha capito che c'è sempre qualcuno più bravo, più preparato, più intelligente di te. E tante volte una persona semplice ti può insegnare cose straordinarie. C'è un'arte nel saper guardare, nel saper cogliere, nel saper trasmettere».
Maestro parliamo d'amore?
«Una condizione indispensabile per andare oltre, per crescere, per capire. Solo nello scambio, nella contaminazione, nell'attenzione verso il nostro simile, ci può essere la risposta, anche se parziale, alle tante infinite domande. Facciamo tutti parte di una stessa materia».
La pittura dunque a cosa serve?
«Per me è un modo per far arrivare un messaggio, forse un mio modo evidente di riscrivere il mondo, per rileggerlo poi a modo mio, come vorrei che sia, come vorrei che fosse».
Lei è un credente?
«Sì, credo in Dio, sono un seguace della filosofia di Cristo. La fede e l'arte mi hanno aiutato a trovare la giusta distanza dai problemi quotidiani e dunque a guardare più in alto. Fino al punto che posso dire che la mia è diversa da tutte le altre. E se è vero che ancora non ci ho capito molto il gioco mi entusiasma ancora. Forse però, a pensarci bene, una certezza l'ho raggiunta. Che la solitudine che ci affligge non è una malattia psichica, ma una malattia cosmica. Un eccesso di pensiero. La depressione viene quando cadi in questo buio e non riesci più ad uscirne, quando ti senti solo, inutile. Sono convinto che facciamo parte di un progetto. Siamo al centro di un qualche cosa di insondabile che ci circonda e ci coinvolge e non ci rendiamo neanche conto della grandezza, dell'immensità che ci avvolge. La mia soddisfazione sta nel raccontare quello che vedo, di condividere le mie piccole e sudate conquiste. C'è una linea ascendente nell'evoluzione dell'uomo, della scienza. E la storia stessa, a leggerla bene, in fondo forse non è altro che la prova di un disegno divino che ci vede protagonisti».
Fa pensare a “Il mestiere di vivere” di Pavese. La vita come scalata che svela sorprese, nuovi orizzonti, che non finisce mai.
«Faticosa, inevitabile, sempre e comunque affascinante. Ai nostri figli dobbiamo tramandare questa energia, questa inesorabile curiosità, questa disponibilità a farsi meravigliare, se vogliamo migliorarli. Io vado a letto alle tre di notte, mi alzo alle sette del mattino. Ho cercato sempre di non sprecare il mio tempo. Arrivato alla fine della vita sono soddisfatto di quello che ho fatto, di quello che faccio. Potevo fare di più, non tanto essere il primo della classe, troppo impegnativo, ma ciò che conta è continuare la ricerca, con la voglia di cogliere ancora pillole di verità. La vita è un'avventura sempre nuova. Perché risparmiarsi? Bisogna buttarsi, andare, senza fare troppi calcoli. Via. Fin che uno ce la fa».