di Adriano Marinensi – In date recenti e in quattro puntate, ho richiamato alla memoria alcuni aspetti poco noti dell’epoca nazifascista. Forse l’articolo odierno potrebbe considerarsi, per omogeneità, il quinto episodio. Ci sono due donne, nella storia moderna, che impersonano il profilo, a loro modo quasi eroico, di altre in antico: sono Eva Braun e Claretta Petacci. Hanno in comune diversi tratti della loro vita e lo stesso tragico epilogo. Spesso è il destino che traccia il cammino delle persone e ne accomuna, nello svolgimento, i percorsi. Poi, gli avvenimenti vi tessono attorno la tela, il canovaccio della rappresentazione sul proscenio dell’esistenza, facendolo diventare narrazione.
Eva Braun – moglie per poche ore di Adolf Hitler – nasce, a Monaco di Baviera, nel 1912, da padre luterano e madre cattolica. Ha due sorelle, Isle e Greti (Margarete). Insieme a Greti ed al resto della famiglia godrà del beneficio (quasi celeste) d’essere la favorita del “sultano”. E’ ancora minorenne e, per caso, risponde alla offerta di lavoro del fotografo di Hitler. E’ in quello studio che lui la conosce: 17 anni Eva, bionda procace, e Adolf quasi il doppio. Per lei, a prima vista, è soltanto “un signore di una certa età con dei buffi baffetti”. Ed il signore con quei buffi baffetti, al momento, ha in mente la belloccia nipote, figlia di sua sorella Angelica. E’ una ragazza dall’indole difficile che presto, chissà perché, si toglie la vita.
Nel 1932 (lo scrivo qui, imitando Totò, quand’io nacquetti), in Germania ci sono le elezioni. Adolf pensa ad arruffare il popolo ed Eva, la cui vicenda amorosa è appena iniziata, rimane per lungo tempo sola. Non la prende bene, tanto da pensare al suicidio. Ci prova un paio di volte inutilmente. Sembra un caso, però intorno al futuro capo del nazismo già s’odono miasmi di morte. Finalmente Eva può andare a vivere in una villetta donatale da Hitler. Il quale, nel frattempo è diventato il Cancelliere della Germania e non può sbandierare l’amore per Eva. Meglio nasconderla al Berghof, la residenza del Fuhrer sulle montagne della Baviera. Il Mein Kampf è andato a ruba e con i proventi, l’autore ha, tempo addietro, acquistato il modesto rifugio, poi ampliato ed arredato in stile rustico alpino.
Ospiti esclusivi del Berghof sono solitamente i gerarchi di punta del regime come Himmler, Goebbels, Heydrich, Von Ribbentrop, Speer, Wolff. Ebbero il privilegio di un breve soggiorno Mussolini e Galeazzo Ciano. Ma la regina della casa è Eva Braun. E’ lei che gira, con una piccola cinepresa, interessanti scene di vita privata del dittatore. In quelle immagini, si vede l’ambigua indole di uomo affettuoso con gli animali domestici (il cane lupo, in particolare), in contrasto con l’altra feroce che pianifica lo sterminio degli esseri umani. Forse Erasmo da Rotterdam avrebbe tratto nuove ispirazioni per l’“Elogio della follia” (Moriae Encomium), aggiungendoci aspetti legati alla criminalità estrema. Infatti, la follia di Erasmo si proclama figlia del dio della ricchezza, allevata dall’ignoranza e dall’ubriachezza, però utile alla felicità: avrebbe potuto analizzare la pazzia di Hitler che fu invece sconvolgente senza pari negli effetti perversi.
Quando gli eventi bellici entrarono nella fase calante, oltre a nido d’amore, il Berghof divenne il Quartier generale di Adolf, prima del trasferimento nel bunker sotto la Cancelleria di Berlino. Ad Eva era stato ordinato di andare a vivere a Monaco; lei invece disubbidì per non lasciare l’amante e ne condivise il finale nel triste covo di cemento armato. Dove i due si sposarono e poche ore dopo si uccisero, quando ormai a fronteggiare l’Armata Rossa, a Berlino, erano rimasti i ragazzi della “gioventù hitleriana”, funerei fantasmi del fanatico delirio. Il sipario era calato inesorabilmente, sul proscenio di una empia rappresentazione.
In Germania, parimenti in Italia, alla fine di aprile del 1945. In Italia, dove era nata, molti anni addietro, un’altra avventura amorosa tra analogo tiranno (Benito Mussolini) e una anonima fanciulla (Claretta Petacci). Con una variante: a differenza di Adolf, scapolo tenace, Benito invece sposato con Rachele Guidi e padre di cinque figli: Romano, Bruno, Vittorio, Edda e Anna Maria; senza dimenticare Benito Albino, avuto in gioventù da Ida Dalser. Nella finzione cinematografica, Ida e Albino stanno sulle scene del film Vincere di Marco Bellocchio. Donna Rachele era una ruvida casalinga romagnola come lui, diversa da Claretta, leggiadra ragazza di mondo che lo fece innamorare e dell’uomo di potere subì l’attrazione fatale.
L’incontro galeotto tra il figlio del fabbro e Claretta lo organizzò il caso, lungo la strada da Roma ad Ostia, verso il mare. E subito ebbe inizio la tresca, quando lei aveva vent’anni e lui cinquanta (nato a Predappio il 29 luglio 1883). A parte l’idillio amoroso, non è stato mai ben chiarito il ruolo della Petacci e di altri della sua famiglia, dietro le quinte della tragedia mussoliniana. Sono noti gli incontri sul grande divano di Palazzo Venezia e le vacanze estive a Riccione che la stessa Claretta definirà, più tardi, trascorse con il suo Ben, durante giornate di passione. Il legame con il veemente duce del fascismo era già in vigore (dei sensi), quando la ragazza andò all’altare con un tenentino di pari età. Matrimonio presto concluso per annullamento della Sacra Rota.
Nella vicenda entrarono anche due fratelli di Claretta: l’attrice di poco talento Miriam di San Servolo e l’intraprendente Marcello che si giovò ampiamente, per i suoi maneggi, dell’essere congiunto stretto della concubina del capo. Venne fucilato, il 28 aprile 1945, sul lungolago di Como, dove caddero anche i gerarchi fascisti in fuga con Mussolini verso la Svizzera. Per quanto riguarda il confronto diretto Rachele – Claretta, avvenne molto tardi nel tempo, quando l’una scoprì l’esistenza dell’altra. Fu acceso e drammatico. Ne parla Rachele in uno dei suoi diari pubblicati dopo la fine della guerra. Si scontrarono accanitamente le rivendicazioni della moglie e l’ossessione dell’ amante e del suo amore impuro. Rachele ci racconta anche delle altre ciurmerie amatorie da guitto dell’alcova (pare fossero numerose) del marito, prima e durante il regime, quasi imposte dal ruolo sbandierato di maschio latino. Ed il colpo di fulmine di lei (aveva 18 anni) per “quegli occhi di fuoco”, mentre era cameriera nella locanda del padre del futuro sposo.
Quando però andò in scena l’ultimo atto, accanto a Benito Mussolini, dinnanzi al cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, sotto i colpi del mitra, c’era Claretta Petacci, che per rimanere con lui sino alla fine, aveva rifiutato di salire sull’aereo diretto verso la salvezza. La stessa salvezza rifiutata, pochi giorni dopo, da Eva Braun, a Berlino. Così da rendere paralleli gli imperscrutabili destini di due donne, figlie del loro tempo e vittime della medesimo incanto. Entrambe nella parte malinconica della pupa del gangster.