Di Adriano Marinensi – Facciamo un passo indietro (di oltre trent’anni). Un brutto passo per la giustizia italiana. Giustizia “deviata” oppure malagiustizia, fate voi. Sono le quattro e un quarto del 17 giugno 1983. Venerdì 17. Roma non si è ancora svegliata. Sulla copertina di un libretto che ho qui davanti c’è una foto dove sono evidenti, in primo piano, un paio di manette che stringono i polsi di un uomo dallo sguardo smarrito, i pugni serrati dallo spasimo dell’anima, l’abbigliamento disordinato. Due Carabinieri lo tengono sottobraccio com’è d’uso. Lo hanno tratto in arresto su ordine di cattura emesso dalla Procura di Napoli. Un giudice inquirente (anzi due) lo accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico, finalizzata al traffico di armi e stupefacenti. Nientemeno! Tempo appresso, un giornalista incauto ci aggiunge l’aggravante di aver sottratto i fondi raccolti da una emittente televisiva, per i terremotati dell’Irpinia. Verrà poi condannato per diffamazione.
La notizia di quell’arresto finisce rapidamente sugli organi di informazione e milioni di persone a chiedersi “sembrava persona dabbene, invece.” Si perché basta un rappresentante della legge (anzi due) che ti incrimina e di botto diventi malavitoso. E, se sei qualcuno, inizia la gogna mediatica. D’altro canto come si fa a non credere ad un amministratore di giustizia (anzi due). L’imputato si proclama innocente, ma lui è un semplice uomo di spettacolo. Il tradotto in vincoli si chiama Enzo Tortora, conduttore della trasmissione “Portobello”, con il record di ascolto (28 milioni in una serata). Fine dicitore, si diceva una volta, molto amato per il suo garbo e lo stile accattivante. L’esatto contrario di tanti intrattenitori TV odierni, scalmanati e vocianti.
Per Tortora si apre il portone del carcere ed ha inizio la “incresciosa vicenda” che durerà più di tre anni, trascorsi parte in cella, parte agli arresti domiciliari. Il calvario di un cittadino assalito dall’infamia di una disonorevole accusa. Dissonante con il proprio profilo intellettuale. Camilla Cederna scrisse che “non si va ad arrestare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni.” Al contrario di Indro Montanelli: “Non si mette in moto un meccanismo persecutorio solo in base ad accuse mosse da avanzi di galera”. In effetti tali erano Pandico, Barra e Barbaro. Enzo Biagi, alla fine della storia, inviò una lettera al Presidente della Repubblica: “Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura.”
Era accaduto che alcuni camorristi pentiti lo avessero definito affiliato alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. In più il suo nome, completo di numero di telefono stava su una agenda molto sospetta. Era il numero di telefono di un omonimo: sarebbe bastato uno squillo per capirlo. La Procura aveva avviato una maxinchiesta spettacolare, con 856 mandati di cattura, 412 persone arrestate in una sola notte, 640 rinviati a giudizio; e un rapporto di indagine di 3.800 pagine, chiamato ironicamente “la Treccani della camorra.” Tutto ritenuto attendibile, senza troppi riscontri. Prima dell’inizio del processo, l’accusato Tortora diventa il candidato del Partito radicale alle elezioni europee. Viene eletto con 500.000 preferenze. Il 4 febbraio 1984, si avvia il dibattimento di primo grado. Dura 7 mesi e 67 udienze. Tortora è a Bruxelles impegnato nelle sedute del Parlamento europeo. Però quando viene emessa la sentenza che lo condanna a 10 anni e 6 mesi di reclusione, rinuncia all’immunità e torna agli arresti domiciliari. Qualche mese dopo viene depositato il “faldone” del processo: 6 volumi contenenti 267 pagine dedicate a Tortora, definito “socialmente pericoloso” e inoltre “cinico mercante di morte”. E lui, nel diario tenuto in carcere annota: “Quello che non si sa è che, una volta gettati in galera, non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che, poco a poco, si riempiono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce freddezza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia.” Altrove – dei pentiti e di chi ha dato loro credito – scrive: ”Saranno soli dinnanzi alla loro mostruosa pochezza. Nudi, finalmente, dinnanzi alla luce di una battaglia talmente alta e degna, che darà loro il capogiro.”
A maggio del 1986, si va in Appello. La difesa pronuncia una arringa durata 7 ore. L’imputato, prima della Camera di Consiglio, dice: “Io sono innocente. Spero con tutto il cuore che lo siate anche voi.” Il 14 settembre 1986, la Corte – visti, come al solito, gli articoli di legge, sentite le testimonianze ecc. ecc. – dichiara l’imputato Enzo Tortora innocente, per non aver commesso nessuno dei reati ascrittigli. La sentenza di assoluzione viene resa definitiva dalla Cassazione, il 17 giugno 1987. Finalmente vera giustizia era fatta, la giustizia con la “G” maiuscola che ha reso dignità ad un innocente coinvolto in una spirale perversa da altri uomini, a diverso titolo colpevoli di aver costruito un castello accusatorio senza il dovuto senso di responsabilità.
L’ennesima dimostrazione che, quando si maneggia uno strumento come la giustizia occorre usare il massimo delle cautele, altrimenti si finisce quantomeno per tradire il mandato ricevuto dalla Costituzione. E si attenta ignobilmente al sacro principio della libertà. Uno dei P.M. che sostenne l’accusa, in un ripensamento postumo, ha chiesto scusa alla famiglia Tortora. Evidentemente sapeva di averla fatta grossa. Quella storiaccia un effetto positivo lo ebbe: gli elettori, con l’80% dei voti, approvarono il referendum sulla responsabilità civile dei giudici.
Il 20 febbraio 1987, ci fu una appendice che commosse gli italiani. Il “fine dicitore”, liberato da ogni sospetto, tornò sul piccolo schermo per riprendere “Portobello”, ricominciando – disse – da “dove eravamo rimasti”. Alla fine però, il tormento della crocefissione fisica e morale, ti uccide. Come uccise Enzo Tortora, a soli 59 anni, il 18 maggio 1988. Volle che, insieme alle sue ceneri, fosse sepolta una copia della “Storia della Colonna infame” di Alessandro Manzoni. Si tratta del saggio nel quale è narrato il processo a due innocenti, accusati di essere propagatori di peste durante l’epidemia del 1630. Entrambi ebbero la condanna a morte e la casa di uno di loro distrutta. A memoria di quel misfatto giudiziario, sulle rovine, fu eretta la “Colonna infame”.
A Milano, lungo Corso Magenta, c’è una piazza e una targa toponomastica che indica “Largo Enzo Tortora”. Altre vie portano il suo nome a Roma, a Napoli e in molti Comuni minori. “Un uomo perbene” è il titolo del film dedicato alla triste vicenda. E’ stato anche scritto: “Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente oppure Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La sua vicissitudine non lascia in pace neppure la nostra coscienza.” Così come non la lasciano in pace chissà quante altre, patite da cittadini anonimi, incriminati, trattenuti in prigione, poi assolti. In un Paese che vanta d’essere Stato di diritto e garante della libertà d’ogni persona, non dovrebbe accadere. E chi sbaglia clamorosamente deve pagare. Altrimenti si creano le caste degli intoccabili.