di Adriano Marinensi – Ormai – come osserviamo spesso con qualche velo di malinconia – non ci sono più le mezze stagioni. Poco dopo finita questa estate, con le sue temperature inusuali protratte sino al tempo della vendemmia, ecco arrivare Natale e Capodanno. Ai tempi di quando fui nato da poco, era il periodo più atteso dall’animo ancora fanciullo, che credeva alla Befana con la scopa e a Babbo Natale con la slitta. Vallo a dire oggi ai bimbi delle elementari che trafficano con lo smartphone!
C’erano e ci sono ancora – non dovremmo dimenticarli – i valori propri del Natale. Appartengono a tutti. Sono, se il parallelo è consentito, patrimonio dell’umanità. Purtroppo, in quella parte del mondo moderno, sospinta dalla fregola dello sviluppo senz’anima, si sono affievoliti. E’ il nostro un tempo natalizio assalito dalla esaltazione dei consumi, dall’egoismo della distrazione, dalle costose luminarie inutili. Altrove invece si continua a morire per le guerre e per fuggire dalla loro violenza. Neppure i bambini, tanti bambini vengono risparmiati. Si tratta di alto tradimento ai principi fondamentali della convivenza umana, della pace, del rispetto d’ogni vita. Siamo in un’epoca che rischia di vedere cancellata la storia, la cultura. i sentimenti nobili del passato.
Anche di un passato prossimo quando i riti e le usanze di fine anno sapevano di aggregante familiarità, di unione solidale. Il “cenone”, improntato alla continenza genuina (almeno in campagna dove io stavo di casa), radunava attorno al desco l’intera progenie. Il nonno sedeva a capotavola e la polenta veniva servita sull’asse di legno dove mia nonna spianava la pasta; poi, “costarelle” e salsicce ricavate dal sacrificio del suino, accoltellato verso la metà di dicembre. Altro sacrificato era il cappone per il brodo, poveretto lui l’ex gallo, rimasto, ormai da tempo, senza attributi, eunuco all’ingrasso, deriso nel pollaio. Quindi immancabile la tombola: 47morto che parla, 22 le carrozzelle, 24 la vigilia, 33 gli anni di Cristo Re, 77 le “zampe” delle vecchie. Cinquina ! Intano, nel grande focolare, il ceppo natalizio scoppiettava allegro. Quel fuoco tentava pure di riscaldare la dimora, ma da solo i miracoli non li poteva fare. Doveva combattere la tramontana, ladra di calore, sempre vittoriosa con i suoi gelidi “spifferi”. Il letto lo rendeva tiepido il “prete”, un aggeggio di legno foderato di latta, messo sotto le coperte con dentro un piccolo braciere.
La festa era lì, nella cucina grande, con i travi di legno a tenere alto e saldo il tetto. Festa per grandi e piccini, intenti, in combriccola, al giocondo stare insieme che sapeva di serena convivenza. Sono passati gli anni e i giovani come me si son fatti anziani e, soprattutto il mondo, è stato assalito a tradimento da alcune modernità che hanno travolto le vecchie tradizioni. Prima la televisione, collocata al posto del camino, ha messo a tacere, sul divano, marito, moglie e figli. Dopo, il telefonino e il tablet, ormai adoperati in ogni momento del giorno e talvolta pure della notte. Cellulare e computer hanno reso i rapporti interpersonali spenti e distaccati e, persino a pranzo e a cena, questi convitati di pietra invadono la mensa. Tutto così è diventato virtuale: le amicizie, i dialoghi e addirittura le effusioni amorose sanno di contristata freddezza. Questo tipo di tecnologia, da utile strumento di emancipazione, si è trasformato in oggetto maniacale, arrogandosi il potere di prevaricare il rapporto diretto, spesso alterando il piacere d’ogni simposio.
Allora la domanda (che vuole essere un amabile auspicio) è la seguente: almeno durante le feste di Natale e Capodanno, vogliamo recuperare lo spirito di smarrita fratellanza che, in passato, nobilitava le “adunate” culinarie? Almeno nei momenti comunitari facciamo tacere cellulari e consimili diavolerie e riprendiamo a guardarci negli occhi come è giusto (ed educato) che sia, stando seduti a tavola, in occasione delle “feste comandate”. E non facciamoci più “comandare” da ciò che ha distratto il nostro sguardo e la nostra attenzione durante gli amicali incontri.
Se, tra le mura domestiche, e in riunione con parenti e non solo, sarebbe cosa buona e giusta dare l’ostracismo ai “marchingegni” tecnologici e “riprendere le parola”, fuori, nell’ambiente urbano, c’è invece necessità di silenzio o, quanto meno, di ridurre le mille cacofonie che imperversano in ogni dove. Io credo che, in antico (mica ai tempi delle caverne), l’uomo e la natura attorno fossero avvolti nel silenzio. Tuttalpiù muggiva il bue del Presepio e ragliava l’asinello, erano i fanciulli a rendere sonori i loro giochi e si alzavano discreti i richiami degli ambulanti (Arrotino, accomoda ombrelli …) oppure, dal bosco, poteva arrivare il percuotere ritmato del taglialegna. In tempo di Natale, il melodiare delle zampogne, con le sue note semplici, invitava alla serenità. Le grandi “concentrazioni edilizie” non esistevano ancora e quindi l’abitare formava, in prevalenza, comunità medio – piccole. Per definirle in modo banale, “a misura d’uomo”.
In Umbria, la Valnerina può fare da esempio. Mostra ancora, seppure rinnovati, i tanti centri storici ove resistono usi e costumi di un altro vivere che sanno di comunione sociale e di rispetto del creato; e sembrano tramandare un po’ di francescana spiritualità. L’alta montagna, dove salgo d’estate, è il luogo simbolo della quiete. Solo lassù restano confinate le atmosfere morbide e avvolgenti delle faggete. Passeggi sopra le foglie morte, annusando il profumo del bosco e puoi ammirare, in autunno, i colori della natura che si veste di rosso, mischiato al verde perenne. Forse gli gnomi sono nascosti tra gli alberi e rimproverano l’intrusione del tuo andare.
La città però ti aspetta in agguato con le infinite nevrosi e i suoi “agenti inquinanti”. E le sonorità – spesso un putiferio – che angustiano l’esistenza. All’esterno e dentro le case. Ho ascoltato una volta, il narratore di un documentario sulla natura, che diceva: Gli animali della savana si riconoscono tra loro dall’odore e dal rumore. In città, i condomini dei palazzi si riconoscono dal rimbombo dei passi lungo le scale, dal tonfo dell’uscio del loro appartamento oppure dell’ascensore, da come lasciano abbaiare il cane. E’ una specie di trasposizione degli istinti animaleschi nella quotidianità, sovente poco urbana, dove il silenzio non è più una virtù.
Comunque, per concludere rispettosamente il discorso sull’uso smodato del telefonino e del tablet, ospiti indiscreti dell’odierno stare assieme; sia che siate in sala da pranzo o in salotto, nelle città convulse o nei borghi taciturni, nei silenzi montani o frastornati altrove, a tutti mi è gradito porgere l’Augurio sincero di BUON NATALE !