Di AMAR – Ero al mare in Toscana e li vicino c’era Bolgheri, il castello della Maremma nell’entroterra della Costa degli Etruschi, che in tanti conoscono per via del Viale dei Cipressi cantato da Giosuè Carducci: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da S. Guido in duplice filar …” Di Carducci sono un estimatore, quindi un’occhiata alle sue parti dovevo darla. Allora ho ammirato il medievale maniero che si erge maestoso all’ingresso dell’abitato, la statua seduta di nonna Lucia su un angolo della piazza: “Di cima al poggio allor dal Cimitero, giù de’ cipressi, per la verde via, alta, solenne, vestita di nero, parvemi riveder nonna Lucia.” La nonna del poeta sepolta nell’esiguo Camposanto di Bolgheri, rimasto soltanto a beneficio del turista.
Quel luogo di vetusti avelli ha diversi secoli di vita, parimenti alle lapidi impallidite ed alle croci di antico ferro, infisse sulla nuda terra. Sopra molte delle iscrizioni murarie, dopo il nome e la data dell’ultimo respiro, c’è scritto “colpito da crudele morbo”. Chissà di quale malattia sono defunti: una epidemia di malaria, la peste del 1600, quando il chinino faceva da panacea di tanti mali, al pari dei rimedi della medicina arcaica. Malanni che falcidiavano gli zappatori in campagna, dove l’igiene era smarrita. Una “scomparsa” in famiglia destava dolore quasi pari alla perdita degli animali da fatica. Non per caso, altrove Giosuè rimava: “T’amo pio bove e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi.” E Giovannino Pascoli: “Al rio sottile, di tra vaghe brume, guarda il bove con grandi occhi; nel piano che fugge migrano l’acque d’un ceruleo fiume.”
Di sicuro, il Camposanto di Bolgheri accoglieva i lavoratori agricoli che, sudando da mane a sera, spartivano il raccolto con i Conti Della Gherardesca, padroni e signori di mezza Toscana. I quali, il loro famedio sontuoso ce l’hanno in mezzo agli alberi nel bosco. Così da farti pensare all’interrogativo esistenziale di Ugo Foscolo: “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro?” Erano quei notabili, i discendenti estremi dell’arcavolo Ugolino, fatto perire di fame nella pisana Torre della Muda, insieme ai figli suoi e collocato da Dante nel Canto XXXIII dell’Inferno, in mezzo ai traditori della patria: “La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto” (il cranio dell’Arcivescovo Ruggeri). Insomma, vista la vita grama di tanti umani d’ allora, il morbo crudele poteva essere pure causato dal virus dell’influenza (fece strage la “spagnola”).
Noi moderni, forse non ce ne rendiamo conto, ma c’è un altro “morbo crudele” che oggi dovremmo cominciare a scrivere sopra le tombe: l’incidente stradale. Dunque, colpito da funesto sinistro del traffico. E se una qualche legge dovesse imporre di dichiarare, a capoletto dell’ospedale, la causa del ricovero, sarà obbligatorio scrivere: “Ferito (oppure invalido permanente) a causa di un accidente della circolazione.” Altro che morbo crudele! Facevano vittime le malattie contagiose ed anche le cruente lotte tra poteri e potentati. Però, alla fine il fenomeno morboso si esauriva e pure la pace tornava. Al tempo nostro invece la guerra sulle strade non accenna a finire. Anzi, ad ogni sole che sorge, il “bollettino” ripete il suo requiem. E’ subentrata addirittura una sorta di abitudine che sa di fatalità; persino gli organi di informazione, spesso, le notizie provenienti dal “fronte stradale” le inseriscono nella rubrica “In breve” e nella pagina dove capita, capita, per puro dovere di cronaca. Invece i dati sono allarmanti. Nel 2018, in Italia – lo certificano le statistiche – si sono verificati 172.344 incidenti stradali con danni alle persone: 3.325 i morti e 242.621 i feriti. Nello stesso anno, in Umbria, 48 deceduti e 3.400 finiti in nosocomio a seguito dei 2.385 sinistri. Ci commoviamo per un bambino finito nel pozzo, mentre finiscono nell’anonimato quelli, non di rado, caduti nelle sempiterne battaglie dell’asfalto.
Anche la cosiddetta mobilità urbana crea pericoli. Quando ebbi la ventura di passare gli anni (quindici, per tre mandati amministrativi) nel Consiglio comunale di Terni, mi facevano sorrisi ogni qualvolta – accadeva spesso – sollevavo il problema dell’ingombrante traffico pubblico e privato. Poco efficiente il primo, caotico il secondo. Quasi tal quale a quello odierno, con il solito conflitto tra ciclisti, pedoni e motorizzati, le buche sulle strade, la segnaletica orizzontale cancellata. Negli anni ’80, venne addirittura il Centro ricerche della FIAT ad analizzare la situazione (a pagamento, s’intende); elaborò il solito “piano di riordino” che finì tosto nel cassetto del “gattopardo”. Mi è capitato, giorni fa, tra le mani il “Programma quinquennale 1971 – 75” del Comune di Terni. Documento strategico per il razionale sviluppo delle attività sul territorio. Alquanto datato quindi, però anch’esso, già mezzo secolo fa, considerava l’urgenza di affrontare le questioni legate alla “mobilità urbana”, indicando numerosi provvedimenti di ristrutturazione dei trasporti, di sistemazione dell’isola pedonale e parcheggi, di una diversa politica delle vie di comunicazione, del traffico di attraversamento e di penetrazione, di potenziamento del Corpo dei Vigili urbani e tant’altro ancora. A occhio e croce, alcune delle odierne negatività.
Oggi – sugli stessi temi – se ne può leggere un altro di documento, pur’esso assai complesso, sul sito del Comune rossoverde. Parla di interventi da realizzare nell’arco dei prossimi quinquenni: l’ennesimo piano – programma omnicomprensivo alla campa cavallo, destinato al riassetto della mobilità sul territorio municipale. Si ha l’impressione che il “gattopardo” di cui sopra, si stia riaffacciando sulla scena. Programmare tanto per realizzare poco e quel poco, alle calende greche. A Terni, se ti metti a girare in bicicletta – il più classico dei mezzi alternativi – ti par d’essere “un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro” (ricordate Manzoni e don Abbondio?). Addirittura, se sei ciclista e pure anziano, ti coglie la sensazione d’essere “come d’autunno sugli alberi le foglie” (ricordate Ungaretti?). Sono partito da Bolgheri per arrivare a Terni; anche qui come altrove, i motorizzati si muovono irrazionalmente, inutilmente, in modo configgente. Soprattutto di gran carriera. Corri uomo, corri! Ma, dove corri?
Post scriptum (sul tema “decoro urbano e salute”): Ho letto di provvedimenti restrittivi, che intende adottare il Comune di Terni, a carico di quei cittadini che sporcano il suolo pubblico con le deiezioni dei propri cani. Io li estenderei anche agli altri che hanno scambiato i muri e gli angoli dei palazzi (pure di pregio) per orinatoi canini. Che ne direbbe, Signor Sindaco, di un contributo (obbligatorio) a carico dei canisti per ripulire la città dalle schifezze degli amici loro? A motivo, appunto, di igiene e buona creanza. Ripulire tutto, pure la pipì del cucciolone di casa. Come? Con la cannuccia! E la guerra ai piccioni imbrattatori, dichiarata con l’Atto di indirizzo del Consiglio a dicembre dello scorso anno, che fine ha fatto?