di Francesco Castellini – Danilo Fiorucci è un funambolo, si muove da sempre come un equilibrista sul filo sottile che lega la logica alla metafisica. Se si va ad analizzare tutto il suo percorso artistico si nota che è attraversato da un interesse costante per la questione del “corpo”, inteso come presenza non tanto iconica o volumetrica, quanto piuttosto formale, pittorica e anche matericoscultorea. In altre parole è alla costante ricerca dell’essenza, di quel nucleo invisibile impossibile da cogliere e fermare, ma che paradossalmente ha il potere di lasciare tracce profonde ed incancellabili.
Arte e vita. Un altro modo per aggirare il tempo e lo spazio, per sublimare e ignorare il concetto stesso di fine e di vuoto. Di opera in opera Danilo Fiorucci fa emergere e annoda problematiche ed esperienze, sin da un suo giovanile lavoro, “La durata di un istante”, del 1989, che segna una sorta di incipit, fino alla più recente produzione che mantiene sempre fra le righe questo “fil rouge” che sottolinea come tale questione abbia subìto, nel lavoro di questi ultimi anni, una sorta di traslazione, da una condizione fisica ad una condizione sempre più strettamente astratta. La lettura legata a precedenti lavori dell’artista si può articolare in possibili analogie tra un interno ed un esterno, tra un mostrare ed un negare la forma, tra il rimando all’occhio e quello al ventre, sempre in elementi dall’alta qualità plastica e pittorica. Danilo Fiorucci, nato a Perugia nel 1961, si è diplomato all’Accademia di Belle Arti “Vannucci”.
L'associazione Arti Visive Trebisonda. Ben presto ha fondato l’associazione Arti Visive Trebisonda con cui collabora attivamente da più di trent’anni, che si occupa di arti visive. Molti artisti, italiani e stranieri, ne hanno fatto parte, esponendo nello spazio di via Donato Bramante 26 le loro opere migliori. Ha partecipato ad un’infinità di mostre ed ha ottenuto premi e prestigiosi riconoscimenti in Italia e all’estero. Ha concluso da poco, nella chiesa museo di Sant’Antonio Abate di Cascia, una mostra con la quale ha avviato un ciclo di opere scultoree che si intitola “Lo spazio assente”. Alcuni suoi lavori si possono ammirare in questo momento al foyer del Teatro Morlacchi e a gennaio ha fatto un’esposizione a Roma, presso lo spazio della curatrice Anna Cochetti, che conosce bene anche il panorama artistico regionale.
Lo spazio assente. Da qualche giorno Danilo Fiorucci espone al Museo Internazionale della Ceramica di Deruta, dove è presente con un lavoro realizzato appositamente dal titolo “Inverso – Lo Spazio Assente”. La mostra è a cura di Bianca Pedace. Nato nell'ambito del progetto “Lo spazio assente”, l’intervento site specific di Danilo Fiorucci al Museo della Ceramica di Deruta ne costituisce una evoluzione. L'artista indaga lucidamente sulla scultura e i suoi termini, tentandone una rigorosa definizione. E’ una dimostrazione condotta per contrario (pertinente dunque il titolo, Inverso). Dalla solidità tridimensionale trasposta in vuoto si giunge al peso convertito nella leggerezza del polistirolo, che, con il suo candore, fa il controcanto al marmo. I piani si frangono, tra intenzione e caso, in una espansione dinamica memore dell’esperienza avanguardista. Sculture paradossali, sospese e capovolte, ci invitano a girare intorno, nello spazio.
INTERVISTA
A Danilo Fiorucci abbiamo rivolto alcune domande.
Cosa ricerca, cosa è stata la spinta che l’ha avvicinata al mondo dell’arte?
«Sono sempre stato molto curioso. Mi interessa indagare e sono convinto che ci sia sempre una relazione fra ciò che uno fa, le domande che si pone e l’arte come strumento di conoscenza, che diventa allora uno specchio dell’anima. Amo tutto ciò che mi racconta l’uomo, sia come singolo soggetto, che come concetto di uomo in generale. La spinta iniziale è dunque data dalla volontà di scoprire, di comprendere come ci collochiamo nel mondo. Questo strumento è sempre legato alla propria individualità. Soprattutto nella fase iniziale della mia ricerca ho lavorato molto sul mio corpo. Sui sensi. Sugli strumenti della percezione. Poi ho iniziato ad individuare delle tematiche, che poi sono quelle assolutamente ricorrenti nell’arte di tutti i tempi. Vale a dire concetti di spazio, profondità, memoria. È una ricerca che sconfina nella scienza, nella filosofia, nella teologia».
Che le ha insegnato?
«Che un artista non necessariamente deve dare risposte, ma deve avere la forza e il coraggio di porre nuove domande. Credo che le opere d’arte aggiungano questioni e prospettive a chi osserva e a chi guarda. Che è poi un ampliamento di sguardo sul mondo».
L’ha reso migliore?
«Assolutamente sì. Per praticare un’attività artistica è necessario studiare, informarsi, mantenere uno sguardo a 360 gradi. Gli interessi sono dalla filosofia alla scienza, alla psicologia e forse per certi aspetti gli artisti vanno considerati come gli “ultimi umanisti”, coloro che cercano di sintetizzare queste conoscenze con strumenti diversi, che ovviamente non possono portare a soluzioni, ma al massimo a sintesi che hanno poi il potere di provocare tesi e la necessità di essere approfondite».
Lei parla di “ultimi umanisti”, ma in questo momento se ci guardiamo intorno l’arte sta vivendo una fase particolare, soggetta alla commercializzazione, alle ferree e inesorabili leggi del business. Come per il vino si studia prima l’etichetta e poi il resto. Si è messa in moto una macchina ben oliata, che attraverso mass media, case d’asta, critici prezzolati, costruisce il “fenomeno” che magari riesce a piazzare l’oggetto a prezzi stratosferici, anche se poi nell’arco di poco tempo si sgonfia in fretta e si rivela un “pacco” effimero. Lei come giudica tutto questo e come si colloca in tale quadro?
«Effettivamente c’è la tendenza a far diventare le opere d’arte prodotti di facile consumo. Oggi assistiamo ad un’exploit di giovani, improbabili artisti, che passano come meteore, che lasciano una piccola scia che dura al massimo due anni e che poi scompaiono per sempre. A me interessa qualcosa di più duraturo, che si stratifica nel tempo. Che abbia la presunzione di un portare in sé un pizzico d’eternità».
E come si arriva a questo. Qual è il percorso obbligato in questo senso?
«Un artista deve perseguire la verità, altrimenti se rincorre solo il profitto rischia di creare opere finte, e di questo poi il pubblico prima o poi se ne accorge. Insomma l’arte di cui mi piace parlare è quella che esprime in maniera autentica il suo autore. Altrimenti si darebbe un prodotto falso. E questa cosa è una scorrettezza, non con il mercato ma con se stessi. Inoltre penso che non si possa dire nulla di serio se non prima di aver creato un proprio patrimonio culturale e artistico e di essere a conoscenza di ciò che ci ha preceduto. Certe volte vedo l’arte come una specie di percorso verso l’innocenza ritrovata. Poi è evidente che ci sono personaggi come Van Gogh, o Ligabue, che hanno espresso la loro verità con un’immediatezza, con una purezza mai contaminata e mai corrotta da nulla».
A cosa sta lavorando ora?
«C’è un fiume che scorre da sempre che è quello della pittura. Poi contemporaneamente a volte mi getto in dei progetti specifici, uno è quello dello “spazio assente” che sono una serie di sculture che sto realizzando, che sono delle opere che parlano dello spazio, ma anche del tempo».
Problematiche che inevitabilmente portano al concetto di vita e di morte.
«Ho iniziato a realizzare queste opere casualmente guardando un documentario in tv. Ho visto un archeologo che saliva su una roccia dove erano collocati i Buddha di pietra fatti saltare in aria dai talebani, e lui ad un certo punto ha detto che quelle sculture erano ancora lì. Allora lo spazio assente per me è diventato lo spazio che in qualche modo le opere d’arte hanno sottratto per sempre alla dimensione fisica, fino a farla diventare una dimensione metafisica. Spazi che una volta occupati da “essenze” perfette, nessuno potrà mai più cancellare o occupare nuovamente. Per questo l’arte ci dovrebbe insegnare ad essere delle persone autentiche. Quanta più verità c’è in quello che facciamo tanta più possibilità c’è di essere compreso e che questa cosa lasci il segno. È quando è falsa che c’è bisogno di costruirci sopra tutto un’impalcatura che però prima o poi è destinata a crollare».