di Adriano Marinensi – Le scuole elementari le ho frequentate a Penna in Teverina, uno dei caratteristici paeselli dell’Umbria, poco distante da Amelia, provincia di Terni. In quell’epoca e, ancor più, in quel luogo, quasi estraneo era il cemento armato e invece assai presenti le architetture spontanee, tipiche degli atavici costumi legati alla ruralità. La dagherrotipia di quella Penna, collocata nel tempo a cavallo della mussoliniana guerra mondiale, me la ricordo così: nella parte vecchia, le case allineate e addossate, in una sorta di mutua assistenza edilizia, scure, disadorne, due piani al massimo, con le brevi scale d’accesso, l’uscio di legno consunto, e il ballatoio spesso fiorito di olenti petunie e gerani; dimore affollate da più generazioni. All’intorno, le altre disperse, con l’aia pigolante, ombreggiata da alberi d’alto fusto e il pozzo al centro. Insomma, i casolari, oggi tanti di loro abbandonati dal sopravvenuto esodo siderurgico.
Si entrava nel mezzo del borgo antico, attraverso l’arco in cima al quale batteva il tempo l’orologio con i numeri romani. In fondo, il belvedere e l’affaccio su una vista stupenda, verso la Valle del Tevere. Era la campagna umbra che, d’estate, emana intensi afrori e colori. E, le lunghe giornate, magari sotto la quercia arcigna, la controra invita al vagar dei sogni. Quell’orologio scandiva le ore per orientare i ritmi quotidiani. Il resto del tempo era regolato dalle albe e dai tramonti, con il gallo a fare da sveglia. Entro i trimestri delle stagioni, delle mietiture e delle vendemmie, nella buona e nella meno buona sorte, il lavoratore agricolo “programmava” il suo impegno nei campi. Gravosa era la cura delle coltivazioni, del pollaio, della stalla, posta sovente sotto l’abitazione a far da coadiuvante al riscaldamento del fumoso camino. Le semine e soprattutto i raccolti, con la speranza che fossero copiosi, pur se spartiti con il padrone della terra in mezzadria. La fatica no, quella era a carico dello zappatore. Principale ausilio del lavoro l’aratro, trainato dal “pio bove”.
La morte del’asino da soma o della vacca da latte diventava quasi una disgrazia in famiglia. Vigeva “l’autarchia rusticana”: la vigna dava il “goccetto” per il pasto, ancor prima il mosto ricavato pestando l’uva con i piedi e il torchio che – scampanellando in ottobre – forniva l’esausto per il “raspato”, lontano parente del vino e cugino stretto dell’aceto. Il campicello procacciava gli ortaggi e la frutta, i minuscoli oliveti l’olio, il maiale la carne. E i gelsi le foglie per allevare i bachi da seta, con i quali qualcuno tentava di “differenziare” la produzione dell’esiguo reddito.
Il timor di Dio stava riposto in una fede genuina, che garantiva carattere umano alla comunità e corale partecipazione ad ogni singola tristezza. Il Parroco don Antonio, cercava, a suo modo, di tener desti i sentimenti di fratellanza. Me lo raffiguro ancora, somigliante al manzoniano don Abbondio (coraggio escluso). Sant’uomo, don Antonio, frequentava i suoi fedeli parrocchiani, dando loro un punto di riferimento non soltanto religioso. Gli altri “personaggi”, meritevoli del buon giorno scappellato, erano le due insegnanti (una sorella della madre mia), il rigoroso maestro, insieme al bottegaio di remota famiglia e ad un paio di blasonati che mai ebbi il gusto d’incontrare, ritirati com’erano nei loro manieri. Festa grande della devozione, la Processione in primavera, quando, con i petali rossi dei papaveri, gialli e verdi della ginestra, si allestiva il pavese.
Mi sovviene dei vecchi (ch’erano vecchi quando neppure anziani e senza pensione) che, rubando qualche raggio al primo tiepido sole, se ne stavano seduti sopra la panca di pietra, il sorriso raro e rugoso, il bastone mantenuto tra i piedi: quei veterani della terra parevano personaggi crepuscolari, immagini di un anonimo viale del tramonto. Testimoni smarriti del campare al borgo, dove sovente la saggezza si ritrovava racchiusa nei proverbi e conservata dentro l’archivio dell’esperienza. La falce mieteva il grano e il martello batteva l’incudine: era però il tempo durante il quale, se gli attrezzi del mestiere (falce e martello) li disegnavi insieme, non la passavi liscia.
Per le strade sterrate, soltanto carri agricoli; nessun frastuono di motore a scoppio (tranne l’ansimante “corriera”, una volta al giorno) s’udiva nell’aria ancora tersa e salubre. Lungo l’unica via d’uscita, quasi nell’atto di montare la guardia alla sacralità delle tradizioni, stavano i “mammalocchi” (i pennesi li chiamavano così), due solenni statue di pietra; e, poco oltre, il camposanto di sacelli disadorni, che parevano dimostrare la validità dell’ interrogativo foscoliano: “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne (e pure i mausolei, n.d.a.) confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro?”
Il corso scolastico andava dalla classe prima alla quinta, ma non tutti lo completavano per non sottrarre braccia all’agricoltura. Al compagno di banco piaceva il mio pane e cioccolata e a me la sua pizza cotta sotto la cenere: sovente si faceva il baratto, per la soddisfazione di entrambi i palati. Sul “certificato di studi”, rilasciatomi in terza elementare – conservato in cornice al pari della foto, un po’ pagliaccesca, di “figlio della lupa” – ci sono una sequela di voti attestanti la qualifica di ragazzino giudizioso. Per esempio, buono in “aritmetica e contabilità”; così pure in “lettura espressiva e recitazione”. Fui qualificato addirittura lodevole per “rispetto dell’igiene e cura della persona”. A dirla tutta, un altro voto buono si nota in pagella, alla voce “lavori donneschi e manuali”. Boh! Sul frontespizio d’altra delle mie pagelle, il Ministero dell’Educazione Nazionale ci aveva fatto stampare, a lettere cubitali, VINCERE. Era l’anno scolastico 1941 – 42, il X dell’Era fascista. Poi andò a finire diversamente.
Si andava in classe con il grembiule nero, il colletto bianco e il fiocco azzurro. A corredo delle aule stavano la lavagna (unico strumento di ausilio didattico) e la stufa rossa di coccio a più ripiani; sulla “seduta” a due posti, in alto a destra il calamaio, colmo di (dannosissimo) inchiostro. A Penna in Teverina e altrove nell’Umbria agreste, la “struttura sociale” era senile e il campare un po’ pesante, però senza le odierne frenesie urbane (lo scrivo ben oltre sopite nostalgie). All’insegna della pace sociale e della civile convivenza. Che l’oggi ha stravolto, nella rincorsa verso l’avere e la dimenticanza dell’essere. Ed un domani forse peggiore, se quelle “radici di umanità” continueremo iniquamente a svellere.