di Adriano Marinensi – Quando metto in parallelo gli anni della mia adolescenza con il tempo della mia vecchiezza e ne sovrappongo i principali caratteri, mi sembra siano trascorsi dei secoli. Guardando all’indietro, vedo il vivere di allora e di oggi e si evidenziano dissimilitudini al limite degli opposti. Fui un ragazzo di campagna ed allora lo “spazio di civiltà” tra la città e la lontana periferia era notevole. Pur se, l’esistenza cittadina non mostrava particolari segni di modernità. Il tempo del quale qui trattasi, si chiama “primo dopoguerra”. Insomma, a cavalcioni degli anni ’40 e ’50 dell’altro secolo. Dal punto di vista socio – culturale, delle arretratezze inquietanti. Così l’aspetto economico e sanitario. Nuclei familiari numerosi, spesso affollati dentro piccoli alloggi, torridi d’estate e polari d’inverno. In tante dimore, univano le forze i “vapori” delle stalle sottostanti e il camino presente ovunque, però i miracoli non li potevano fare. Eravamo usciti dai triboli delle bombe e questo ci appariva essenziale. Positivo il rapporto comunitario che favoriva sentimenti di amicizia e di mutuo sostegno. Si nasceva in casa con l’ausilio della levatrice, infermiera mai stata allieva di scuola infermieristica. Il medico condotto frequentava le case amorevolmente, senza essere un pozzo di scienza e, men che meno, di tecnologia. Il ricovero ospedaliero come ultima spiaggia.
Molte le “figure” scomparse che ebbero un mestiere nient’affatto secondario. Ed ecco allora lo spazzacamino: visti gli innumerevoli focolari accesi (il termosifone, questo sconosciuto), un “ausiliare” importante. Si presentava in giro con il suo richiamo malinconico e sovente con in faccia le tracce del lavoro appena fatto, a garanzia di professionalità. Poi, l’arrotino, munito di una curiosa bicicletta con incorporato l’attrezzo affilatore, funzionante a pedali, che faceva scintille per la gioiosa curiosità dei più piccoli. Arrotava coltelli d’ogni dimensione, compreso lo “scannatore” utilizzato per assassinare il maiale al’inizio dell’inverno. Ho presente in memoria il pasticcere ambulante che vendeva – lo bandiva ad alta voce – “paste alla crema e maritozzi, paste fresche”. Uomo di età avanzata, tentava di arrotondare la misera pensione. Senza pensione alcuna invece, Natalina, annosa anch’essa, che ti portava a casa, insieme al quotidiano, gli attesissimi fotoromanzi. Finito il tragico conflitto, si sentiva il bisogno di emozioni e speranze: quelle pagine, traboccanti di passione, narravano storie animate dai volti di personaggi ben noti. Le statistiche ci dicono che il primo numero di Grand Hotel andò a ruba, con 100.000 copie vendute. Altri fotoromanzi si chiamavano Sogno e Bolero. Ci fu chi imparò i primi rudimenti del leggere e scrivere nell’ansia di interpretare quei “ritratti con il fumetto in bocca”.
Ed ecco apparire, in fondo alla strada, l’ombrellaio. Si annunziava, a squarciagola, così: “Ombrellaio accomoda ombrelli, accomoda piatti, concoline, ombrelli”. A suo modo, un artigiano di provata incombenza. Oltre a riassettare i parapioggia, rimetteva sulla mensa il vasellame rotto, conservato dall’accorta donna di casa. Lungo le fratture inseriva delle grappe di fil di ferro, coadiuvate, nel risanamento, da un mastice simile a quello usato da Zi’ Dima Licasi per riparare la giara di don Lollò Zirafa nella omonima novella di Luigi Pirandello. Quelli della mia età, di stirpe agricola, che dovessero affermare di non aver mai mangiato sopra un piatto “ingrappettato”, sono degli emeriti mentitori. Faceva comodo perfino la diasillara, donna in gramaglie, l’espressione compostamente accorata, intenta a recitare, dietro modesto obolo, preghiere salvifiche per i defunti, sul cancello d’ingresso al camposanto. Rimuginava: “Diasilla, diasilla, scantinseculi in favilla…” A dirla nel latino corretto, era il salmo de profundis “Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla, teste David cum Sibylla …” Non so quanto fosse giovevole all’anima dei trapassati il postulare nel modo della “diasillara”, ma a volte è migliore devozione ciò che si crede rispetto alla realtà. Il Natale era autentica festa del “divino amore”. E noi bambini ad augurare: Buone Feste e buon Natale, fammi la mancia se ti pare, io non voglio né oro, né argento, solo di un quattrinello mi contento. Al suono melodioso degli zampognari e delle loro ciaramelle. Li riproduceva il Presepe, frequente icona della devozione. Pur se i capelli s’erano fatti lunghi, si aspettava l’Avvento per tagliarli, allo scopo di accaparrarsi il calendarietto profumato con sopra disegnate, una ogni mese, le fanciulle in abiti succinti. Era l’omaggio del barbiere che, in cambio, riceveva un munifico (?) “il resto mancia”.
Negli insediamenti rurali, l’aia – grande piazzale pigolante – era l’annesso agricolo prevalente. Serviva per svolgere mansioni di rilievo come, ad esempio, la scamiciatura del mais. I proprietari del prodotto, insieme ai circostanti, nella pratica dell’ “aiutarella”, consistente nello scambio reciproco del lavoro. In casa, lo spazio essenziale lo occupava la grande cucina polivalente; e in cucina, mobile di riferimento la madia, in vernacolo denominata, chissà perché, la mattera. Conservava molti cibi e svolgeva un compito di rilievo: la lievitazione del pane, poi cotto nel forno comunitario, ogni due settimane. Si manteneva fragrante a distanza, il pane di mia nonna, differentemente dall’attuale che, se lo compri oggi, già domani ha cambiato consistenza e sapore.
Molto gettonate la bruschetta e la panzanella (fette bagnate, condite con olio e sale). Abitudini “residuati di guerra”: riempivano lo stomaco senza impegnare il gramo bilancio domestico. Un alimento centrale, la minestra di battuto, ricca di lardo tritato sulla “battitora”. Lo aveva donato l’eroico porco a costo della vita. Se nell’atto di dividerlo in due mezzene non comparivano almeno quattro dita di grasso, si rattristava la famiglia intera. Ancora a proposito di rustico arredamento, in camera dei miei ci stava la toletta, due colonnine di legno con cassetti piccoli e in mezzo incardinata una specchiera mobile, che s’inchinava avanti e indietro all’occorrenza. D’estate, il salotto delle donne del vicinato si radunava in un grande androne percorso da rinfrescanti correnti d’aria; rendevano gradevoli i pomeriggi operosi, sino al far della sera. Incombenza, quasi tutta al femminile, la cerca. Significava andare per i campi dopo la mietitura a raccogliere le spighe lasciate sul terreno, per ricavarne qualche buon chilo di grano da pestare nel mortaio.
Al consumo del tempo libero, ci pensava il bar, luogo rigorosamente al maschile, di amichevoli dispute in argomento sportivo, del competere a briscola e tresette, tracannare birra e gassosa durante la combattuta passatella. La privacy non faceva rima con segreto e neppure con anonimato, però le gioie e le pene trovavano condivisione sincera. Quant’altre cose vorrei raccontare di quel tempo prossimo e genuino, se non rischiassi di farla prolissa. Comunque, il mio mondo era fatto così e lo ricordo, pur senza “maledire” il progresso che lo ha cancellato. Però, a volte, le radici estirpate fanno male alla salute dell’anima, oltre a suscitare sopite nostalgie. Oppure sarà il naturale effetto della vecchiezza che volge lo sguardo e intenerisce il cuore.