di AMAR – L’Unione Europea – in quanto Istituzione comunitaria – per talune sue inettitudini di fronte alla crisi sanitaria ed il conseguente stravolgimento degli equilibri socio – economici già un atto – sta subendo una serie di censure. Molte giustificate, altre meno. Con l’aggravante del comportamento di alcuni Paesi membri (quelli dell’ex impero austro ungarico più Olanda e Finlandia) affatto in linea con gli scopi comunitari per i quali l’Unione fu creata ed esiste. Questa situazione negativa ha ridato fiato alle trombe (tromboni?) da sempre su posizioni disfattiste, di nessuna utilità per la soluzione dei problemi che la situazione attuale ci pone di fronte.
Dopo la fuga della Gran Bretagna, purtroppo guidata dal “gemello” di Trump (hanno in comune la chioma biondo ribelle e le idee sconclusionate poste sotto la chioma medesima), anche l’Ungheria sta andando per una strada palesemente sbagliata. Il sovranismo del suo conducator ha ormai portato il Paese lontano dai presidi e dai valori della democrazia, verso un modello che sa di dispotismo oligarchico. Un peccato mortale per un popolo che ha conosciuto, non molto tempo addietro, le angherie dello stalinismo. Semmai non bastasse ciò che si legge nella storia del XX secolo, quando i nazionalismi esasperati provocarono due guerre mondiali.
C’è terremoto nella U.E. con scosse dissestanti inferte dai separatisti e non solo. Mentre i fedeli all’Unione solidale, nel permanere delle divisioni inefficienti, rischiano di finire privi di punti di riferimento. E’ facile che accada in momenti di crisi e di paura. Nella Unione Europea ci sono dei dissacratori del governo del popolo, cultori dei pieni poteri, che recitano il ruolo del piromane incendiario nel bosco di foglie morte: sono corpi estranei e minacciosi. Nell’Europa dei valori di libertà, della cultura politica ispirata al pluralismo delle idee, non vi è posto per presenze di segno avverso. E per manichini in orbace. Neppure per il populismo italiano che, approfittando del panico, torna a cavalcare i suoi cavalli di battaglia. Sfornando pure atteggiamenti grotteschi per ciurlare nel manico della eterna propaganda elettorale. Come dire lo stupidario ancorato alla smania di potere.
Potrebbe fare da esempio quella comparsata televisiva durante la quale intervistato e intervistatrice (Nonna, che occhi grandi che hai!) si sono esibiti nella recita apocrifa del requiem per i defunti del coronavirus, un uso sguaiato della preghiera simbolo della pietà cristiana. Nel silenzio, purtroppo, delle gerarchie ecclesiastiche. Mentre molto popolo cattolico continua, nell’urna, a far da gregge al pastore, l’apostolo (con l’iniziale minuscola) della fede che lascia donne e bambini in mezzo al mare, in nome della difesa dei sacri confini della patria (la sua e dei suoi sodali, anch’essa con la p minuscola).
Nel tribolato mondo della peste moderna, stanno affiorando sempre più le nuove povertà provocate dall’emergenza sanitaria. Nel nostro Paese, ci sono i miserabili del sommerso che hanno perduto il lavoro senza tutele; e persino le passeggiatrici rimaste prive di clienti. Una umanità che pare dica, si può morire di coronavirus, pure senza polmonite. E che si continui a morire ogni giorno a tre cifre, ce lo confermano i bollettini di guerra della Protezione civile. Mentre purtroppo in Cina, che sembrava uscita dal tunnel, stanno paventando i rischi della seconda ondata. Negli USA, la task force della Casa bianca indica tra i 100.000 e i 240.000 le vittime che l’epidemia potrebbe provocare: la danza della morte in America, che neppure durante l’ultimo conflitto. Il lugubre vaticinio ha fatto mutare idea persino al Presidente Trump, il più imprudente dei corona scettici. Ora suona l’allarme: “Ogni americano si prepari ai giorni molto duri che ci aspettano.” A Wimbledon, in Inghilterra, il torneo di tennis ininterrottamente giocato dal 1877 (143 anni di storia) è stato annullato: la prestigiosa “insalatiera” l’ha vinta il virus.
Siccome ho riportato una notizia di sport, eccone un’altra. Poche righe sul gioco del calcio italico, non il solo purtroppo approdato da decenni nel paese del bengodi, per chi lo pratica e i tanti altri che gli ruotano attorno ad alto livello. C’è in giro per i competenti tavoli ministeriali una relazione (una sorta di grido di dolore) che quantifica i danni provocati dall’epidemia all’industria del pallone in un buco di oltre 200 milioni da aggiungere ai 290 già quantificati sommando i passivi di bilancio preesistenti. Debiti, in buona parte contratti per finanziare i favolosi ingaggi di molti giocatori. La domanda (elementare e per niente originale) che sorge spontanea è questa: Appare democratico ed equo un sistema sociale che consente di elargire compensi sontuosi a chi tira calci al pallone e invece stipendi di poche migliaia di euro al personale sanitario che, nella attuale fattispecie, tenta di salvare la vita ai malati di coronavirus a rischio della propria?
Ed ecco la solita chiusura fuori dal contesto. L’argomento però mi urgeva dentro. Per ricordare una ricorrenza anniversaria passata pressoché nel silenzio. Il 2 aprile di 15 anni fa, è tornato alla Casa del Padre – secondo la Sua estrema invocazione – Giovanni Paolo II. Ha vissuto, senza scendere dalla Croce, i patimenti di un male che è riuscito a fiaccare il fisico, non l’ardore dell’Apostolato. Emblematica della sofferenza e del coraggio, la foto che lo ritrae, il volto contratto, quasi abbracciato al Crocifisso, forse per chiedere tregua al dolore. Eletto Papa il 16 ottobre 1978, ha guidato la Chiesa per quasi 40 anni, Lui che era salito sul soglio di Pietro, primo Pontefice non italiano dopo quattro secoli e mezzo. Fu pellegrino nel mondo per più di cento viaggi durante i quali il suo carisma ha entusiasmato milioni di giovani. Il “lupo grigio” Alì Agca gli sparò in Piazza S. Pietro, il 13 maggio 1981. Papa Francesco lo ha proclamato Santo il 27 aprile 2014.