di AMAR – Prima di scrivere il sottostante banale pezzullo, sento il dovere di chiedere venia agli eventuali lettori che si siano già imbattuti in simili mie passate lamentazioni. Un argomento di “pelo vecchio” che però mi sta, come un mattone, sullo stomaco. Quando Guglielmo Marconi ci regalò la sua grande invenzione ch’era la radio, noi ragazzi di sport ci innamorammo di Nicolò Carosio e, più avanti, di Nando Martellini. Dai microfoni RAI ci fecero vivere agitazioni forti con i racconti dal vivo, essenziali, stringati, passionali. Senza retorica.
Eppure, sulle onde della radio, di parole per descrivere ciò che loro vedevano e noi no, ne occorrevano molte. Ricordate Mario Ferretti? “C’è un uomo solo al comando, veste la maglia bianco celeste, il suo nome è Fausto Coppi.” Tempo addietro, sul traguardo della Milano – Sanremo del 1946, Carosio, conoscendo l’enorme vantaggio del vincitore, disse: “Primo Fausto Coppi; in attesa degli altri concorrenti, trasmettiamo musica da ballo”. Usavano una prosa sobria e senza chiacchiere inutili; rendevano l’idea, magari dosando i termini con garbo e intelligenza.
Quando, durante gli anni ’50 del ‘900, arrivò la televisione, facemmo salti di gioia. Carosio, Martellini, Ferretti (fuggi a Santo Domingo, appresso all’attrice Doris Duranti), più avanti Sandro Ciotti e uno squadrone di signori professionisti del giornalismo, trasferirono il parlar gentile e la presenza cortese sul teleschermo. “Amarcod” le corse fatte per accaparrarmi il posto migliore, nel bar vicino casa, e vedere (ormai non più ascoltare) la partita di pallone, ancora in bianco e nero. Seduti al bar come sulle tribune dello stadio, senza “intermediari”. Insomma, un miracolo di grande bellezza e serenità audiovisiva.
Invece no. Tramontati che furono gli anzidetti “signori professionisti”, hanno ereditato il microfono taluni “parlatori seriali”, senza tregua, i quali, per di più, ad ogni occasione calcistica oppure competizione del pedale, da uno son diventati trini e talvolta di più. Lo squadrone d’assalto in permanente servizio effettivo: per il calcio c’è il raccontatore, lo spiegatore e un paio di poveri cristi all’impiedi, accanto alle panchine, per fare gli psicologi introspettivi e darci notizia dell’umore prezioso, del pensiero nascosto e altre amenità, captati tra i gesti del mister di turno. E, a fine incontro, effettuare immantinente le “interviste a caldo”, senza le quali la storia sportiva rimarrebbe incompiuta. Che pena, ragazzi! Lo dico a voi, cronisti del pallone, ancor più ai conduttori dei talk show pieni zeppi di tuttologi logorroici. Talvolta affrontano i problemi alla carlona, vociando, all’unico fine di sollevare l’indice d’ascolto. Meriterebbero, al pari dei gladiatori nel Colosseo di Nerone, il pollice verso.
Il fulgore delle immagini retrocesso all’ombra della pletora parolaia, all’inseguimento pedante d’ogni “figura”. Soprattutto nel descrivere, un momento dopo, fatti di immediata intuizione, già visti un momento prima dallo spettatore. L’invadente … invasione di campo sul piccolo schermo. Esempio classico di narrazione inutile: La palla è uscita a fondo campo oppure ha sorvolato la traversa oppure è finita in fallo laterale. Al seguito, puntuale, l’illuminato punto di vista del mentovato spiegatore, incaricato di offrire (grazie!) la versione tecnico – filosofica dei fatti. Tutti presenti persino durante le insulse partite di serie marginale. Una combriccola (ripeto: cronista, voce tecnica, “panchinari”) della quale si potrebbe fare utilmente a meno e godersi in santa pace l’evento sportivo. Come stando allo stadio, dove nessuno ti blatera nulla e ancor meno ti chiosa ciò che stai guardando. Dal canto mio, il problema delle importune cacofonie sportive l’ho risolto, pigiando il tasto del sonoro sul telecomando: voci kaput. Fate anche voi la stessa cosa e, parola d’onore, vi troverete molto bene. Fatelo pure durante quelle gare ciclistiche piatte, piatte, dove si pedala in gruppo compatto, senza sussulto alcuno che valga la pena di darne notizia. Al contrario, quelli parlano, parlano, parlano … Zitti colleghi, se potete.
Ora voltiamo pagina, come dicono i lettori del telegiornale. Noi che nascemmo nel corso degli anni ’30 dell’altro secolo (e gli altri ancor prima), sotto le imposizioni del regime, noi che vedemmo le angherie degli invasori segnati dalla svastica e le offese delle armi, noi che patimmo talvolta i morsi allo stomaco, noi vivemmo più di un Natale di guerra, senza allegria, fors’anche rinchiusi nei rifugi antiaerei. Dove, nel mentre fuori si udivano i botti (non erano fuochi d’artificio), tutti pregavano, compresi gli “ipocredenti”. Senza luminarie, quelle Natività: vigeva l’oscuramento ed erano guai nottetempo ad ogni luce accesa. Il cenone striminzito per via della “tessera annonaria” che ci elargiva (bontà sua) un etto di pane al giorno pro capite. Nessun “saccheggio” dei negozi a suon di tredicesima. Rimase in voga la tombola e la messa di mezzanotte. D’altro canto, la Sacra rappresentazione è nata come espressione della fede e non per alimentare commerci, pasteggiare a panettone e spumante.
Secondo la moderna e superficiale visione delle festività di fine anno, fu Natale non Natale. Nell’epoca del grande travaglio bellico, un sacrificio aggiunto ai tanti altri imposti dal clima di paura dinnanzi alle macerie e ai lutti. Oggi stiamo subendo un’altra guerra, parimenti luttuosa, che ci impone pesanti privazioni e rinunce. Se occorrono per sconfiggere definitivamente il nemico, sopportiamoli, persino con un Natale un po’ meno Natale. Domani, come allora, ci saranno la liberazione e la rinascita.